sabato 1 luglio 2017

Su "Vecchi scemi" di Marco Ferri







Caldeggio vivamente Vecchi scemi, l’ultimo libro del poeta fanese Marco Ferri. Soprattutto ne consiglio la lettura ai giovani odierni che, se tanto mi dà tanto, con ogni probabilità saranno i vecchi scemi di domani.
     Ma teniamoci al presente, e dunque oggi chi sono mai, per Ferri, questi vecchi scemi? La domanda viene spontanea, perché qualificare scemi i vecchi è cadere in un luogo comune, non meno trito di quello per cui vecchiaia equivale a saggezza.
     Dalla lettura dei tredici “pezzi” che compongono il libro si scopre che i vecchi in questione, avviliti o irati, sognanti o alle prese con il “logorio della vita moderna” (come diceva Ernesto Calindri ai tempi della tivù in bianco e nero, o postmoderna, come adesso si preferisce dire), hanno sì, è vero, dei problemi di senilità, degli acciacchi fisici, delle amnesie e così via, ma tutto sommato ragionano ancora e non sembrano poi tanto suonati, tant’è che io, che vado per i sessanta, non ho faticato molto a riconoscermi in certe loro fissazioni, ansie, sconfitte, malinconie, rancori più o meno trattenuti, quindi non credo di dire una sciocchezza se affermo che l’autore, che va per i settanta, ne parla a ragion veduta. E d’altra parte ironia e autoironia sono atteggiamenti caratteristici di quell’uomo colto, e va da sé intelligente che è Ferri, come sanno i suoi vecchi (sic) e affezionati lettori, tra i quali mi annovero.
     L’aggettivo scemo del titolo, che rimanda sia all’accezione di “non pieno, mancante di una parte” (haud plenus) che a quella dispregiativa di “deficiente, stolto, stupido, sciocco” (insanus homo), va perlomeno ripartito equamente tra i protagonisti di queste pagine e il mondo che li circonda, di chi a priori li considera appunto scemi.
     Gli attempati soggetti maschili e femminili presi in esame da Ferri soffrono infatti, in primo luogo, di solitudine, di isolamento, di abbandono, di un pensionamento non dal lavoro ma dalla vita, di un essere accantonati non richiesto, imposto dai parenti, dalla comunità, dalla società massmediatica dell’usa e getta… che poi, volendo essere tendenziosi, è la condizione in cui si trovano a vivere oggi i poeti vecchio stampo, quelli un po’ su con gli anni per intenderci, i quali si ostinano a scrivere libri magari belli e utili, però poco adatti al commercio… come implicitamente sembra suggerire il risvolto di copertina, laddove si legge che «i personaggi di questo libro hanno sguardi disincantati e crudi. E forse sta qui il punto, perché sono invecchiati proprio per guardare oltre le cose e attraverso il familiare aspetto che esse hanno. E se insistono sono anche un po’ scemi.»   
     Il suddetto risvolto (anonimo) avvisa inoltre di tredici “racconti”, ma certo per comodità, perché racconti in senso stretto non sono, piuttosto si tratta di descrizioni di tranches de vie, di un succedersi di fotogrammi – e giustamente Enrico Capodaglio poteva parlare, già a proposito di Dove guardi (2001) di «inquadrature sottili da fotoreporter della vita interiore» e di «paesaggi urbani alla maniera di Sironi e piani-sequenza che ricordano il primo Wenders.» In effetti hanno tutta l’aria di sinopie filmiche, il respiro corto e incalzante delle sceneggiature. Leggo a caso, p. 60: «Che cosa c’è di diverso nel 14 agosto rispetto agli altri giorni? Niente. È estate, c’è un caldo umido, grosse formazioni di nuvole, la colazione, il pensiero di arrivare all’ora di pranzo, che sembra un orizzonte lontano ma non mancherebbero certo le opportunità per arrivarci senza soffrire come un cane. Sennonché, è ricomparsa la sofferenza senza nome, ristagnante. In più, piove. Il cielo, zitto zitto, si è oscurato, è caduta qualche goccia, sollevando un odore di polvere bagnata. Poi è venuta giù una pioggia languida, snervante.»
     Tra i diversi personaggi spicca quello di Geremia, nome oggi in disuso e che pare riesumato pour cause direttamente dalla Bibbia (“Il libro più antico del mondo”, come annotava un divertito Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni), l’impopolare profeta lapidato infine dai suoi stessi compatrioti, qui senza la lunga e venerabile barba bianca e ripreso mentre «pensa di farsi due uova al tegamino, a occhio di bue, come diceva sua nonna, quarant’anni prima, forse anche più», ma non diversamente osteggiato, perseguitato, vox clamantis in deserto.

g. z.


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Marco Ferri, Vecchi scemi, Italic Pequod, 2017.