venerdì 1 dicembre 2017

Nadia Campana







Le gioie del declassato

Che mi lasci guidare prematura
farmi portare impadronita
non reggono al confronto delle braccia
valigie piene di esempi
folate indicano il cappello soltanto
mutandosi in fili spazzati
e semi non custoditi in direzione
barca abbandonata lungo il fiume
guardo il ponte, un vero confine,
strappo le tasche e dal biglietto la sua fede:
si scioglie sulla guancia
la gioia del declassato.

Avendo già avuto a che fare
con la resa, scelgo
le processioni del riposo.
Io e la luna sorgente
in un punto remoto assonnate come cani

compressa da fatiche piagata
spostando di qualche strada i passi, spiccano
una dopo l’altra tenaci uguaglianze di tempo.



Lèggere d’estate

Ore nuove e riposate del primo giugno
che una di quelle che aperte come
chicco di ribes rende una forchetta
produce intorno cose – senza riflettere –
intento meticoloso compongo
il mosaico con stacchi solidali:
alle ombre nulla perdendo
nel piccolo gesto implico
così concluso e proprio un palpito
saltare fa da una mano all’altra
chicchi e pampini a capriccio
nomi biondi sulla rugiada
si ammucchiano già
con gli acini sani dentro la polpa acre
dà al sole la pergola al di fuori chiarissima.



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Da Verso la mente, a cura di Milo De Angelis e Giovanni Turci, Crocetti Editore, Milano 1990, pp. 11 e 13. L'opera è stata ripubblicata nel 2014, a cura di Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci, dall’editore riminese Raffaelli. 

mercoledì 1 novembre 2017

Karel van de Woestijne







16.
…Lei vuole chiudere gli occhi nel sogno,
ma non può. In una corona di lacrime
che luccica su un ciglio dopo l’altro, lei lo vede
che, avvicinandosi, si sta inevitabilmente avvicinando:
Paride, questo Paride, che si avvicina, e – che è
questo che ora pende sopra il suo viso…
Egli ha una nuca come di un vitello, quando
questo non salta più nel prato, ma tiene
fissa la nuca girata verso terra, gonfio nel garrese
e non più agile; perché ha raggiunto
il tempo dell’inquietudine nelle viscere.
– E su una nuca che, dura e larga, sta ferma,
sale allora la magrezza delle guance per
la tazza triangolare del mento, come muri di
una torre diritta, fino alla fronte
che è una placca soleggiata davanti al sole.
– I suoi occhi invece: non sono forse quali
dei soli come l’Ade ne deve conoscere, che neri
e atroci sono, i soli dei misteri,
più intensi di ogni incendio del sole nel cielo,
e neri? – E con quei soli egli la guarda,
qui sopra di lei, scandagliando il suo sogno,
e con la bocca scura che, tenera quale
un frutto morsicato, pende madida e calda,
e sembra succhiare, rude, un’aria che è fiamma,
e risucchia la sua vita, la sua vita intera…

17.
E… quando si sveglia, Elena, e l’occhio
si immerge nel pianto, e nel più profondo di lei si agita,
indicibile, la disperazione, ed un profondo lamento
per l’ignoto che lì minaccioso l’aspetta
geme come un uccello malato nella sua testa,
– ecco, lei vede, sveglio al suo tremante fianco,
il principe Menelao che la guarda teneramente,
china sopra di lei il mento curvo,
e mormora, e: “Quanto sono belli i tuoi occhi,
mia cara, e spendenti! Oh, come mi ami,
che già al primo risveglio, e prima
che tu abbia guardato il tuo compagno di letto,
il tuo occhio splende di amore, verso di lui!”…



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Da Elena di Sparta: Elena donna, componimento 16 e 17, in Interludi, traduzione (con testo a fronte) e cura di Jean Robaey, Edizioni Medusa, Milano 2016, pp. 425, 427.

domenica 1 ottobre 2017

Vincent Van Gogh



                                     Vecchio contadino: Patience Escalier (agosto 1888). Saint Moritz, collezione privata.


Ritratto di Joseph Roulin seduto (luglio-agosto 1888). Boston, Museum of Fine Arts.


[…]
   Nel ritratto del contadino mi sono regolato con lo stesso sistema. Tuttavia senza pretendere in questo caso di evocare lo splendore misterioso di una pallida stella dell’infinito. Ma immaginando l’uomo terribile che dovevo fare in mezzo al forno della mietitura, in pieno mezzogiorno. Da ciò gli arancioni sfolgoranti come ferro arroventato, da ciò i toni di oro vecchio luminoso nelle ombre.
   Ah, caro fratello… e le persone per bene vedranno in queste esagerazioni solo della caricatura.
   Ma che importa, abbiamo letto Terre e Germinal, e se dipingiamo un contadino, vorremmo dimostrare che questa lettura ha finito per fare un po’ corpo con noi.
   Non so se potrò dipingere il portalettere come lo sento, quest’uomo assomiglia a papà Tanguy come rivoluzionario; probabilmente è considerato un buon repubblicano perché detesta cordialmente la repubblica di cui godiamo i vantaggi, e perché in complesso dubita un poco ed è un po’ disincantato della idea repubblicana stessa. Ma un giorno l’ho visto quando cantava la Marsigliese, e mi sembrava di vedere il 1789, non l’anno dopo, ma proprio l’anno di 99 anni fa. Era Delacroix, Daumier, i vecchi olandesi. Purtroppo non lo posso far posare, eppure sarebbe necessario, per poter fare un quadro, un modello intelligente.
   Devo dirti ora che questi giorni sono di una durezza estrema dal lato materiale. Qualunque cosa io faccia la vita è molto cara, quasi come a Parigi, dove spendevo quattro o cinque franchi al giorno, non facendo niente di straordinario. Mi prendo dei modelli e perciò diventa ancora più difficile. Non importa, comunque continuerò così.
   Come pure ti assicuro che se tu di tanto in tanto mi mandassi per combinazione un po’ più di soldi, se ne avvantaggerebbero i quadri, e non io. Per conto mio non ho che la scelta fra essere un buon pittore o uno mediocre. Scelgo il primo. Ma le necessità della pittura sono come quelle di un’amante costosa, non si può fare niente senza soldi e non se ne hanno mai abbastanza. Perciò la pittura dovrebbe farsi a spese della società e non esserne sovraccaricato l’artista. Ma invece, ecco, bisogna per di più tacere, perché nessuno ti obbliga a lavorare, dato che l’indifferenza per la pittura è fatalmente molto generale, e di lunga data.
[…]


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Da una lettera al fratello, datata Arles, 11 agosto 1888, in Lettere a Theo sulla pittura, note di Massimo Cescon, traduzione di Marisa Donvito e Beatrice Casavecchia, scelta di Tiziano Gianotti, Tea, Milano 2003, pp. 132-133.

venerdì 1 settembre 2017

Lorenzo Bartolini







Urta i pensieri
il vento soffia forte
sbattendo porte


*


Il sole sorge
col canto dei passeri.
Che buono il caffè!


*


La nebbia bassa,
all’improvviso fari.
Voci, da dove?


*


Tagliando l’erba
mentre l’ape bombisce
sulla lavanda


*


L’acqua del fiume
rinfresca i piedi stanchi.
La pelle d’oca!



............................................................................................................................................Da Senti cosa ho scritto, introduzione di Roberto Mercadini, Miraggi Edizioni, Torino 2017, pp. 104, 106, 108, 110, 115.

martedì 1 agosto 2017

Franco Marcoaldi







Fuori di qui si spara, e non a salve.
Tu pianti salvie selvatiche, e fai
bene, ma intanto il mondo brucia
e le sue fiamme sono fuori
controllo ormai. E tu lo sai.

Però più sai, meno capisci –
non conti nulla e nulla puoi,
salvo allarmarti come tutti
dondolando impotente
nella solitaria e planetaria culla
di video a loop che gentilmente
ci hanno apparecchiato.

All’indomani ti alzerai di nuovo,
berrai un caffè e riprenderai
a piantare salvie – mentre
fuori continueranno
a sparare. E non a salve.


***

Corre senza guinzaglio la poesia.
Nessuno si azzardi a dire: è mia.


***

Tempo perso, energie sprecate,
torti patiti, risentimento
accumulato – eppure, riavvolgendo
il nastro dei tuoi giorni,
ci sarebbe poco o nulla da cambiare:
quello che sei equivale grosso modo
a quello che saresti stato.


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Da Tutto qui, Einaudi, Torino 2017, pp. 7, 23, 43. 

sabato 1 luglio 2017

Su "Vecchi scemi" di Marco Ferri







Caldeggio vivamente Vecchi scemi, l’ultimo libro del poeta fanese Marco Ferri. Soprattutto ne consiglio la lettura ai giovani odierni che, se tanto mi dà tanto, con ogni probabilità saranno i vecchi scemi di domani.
     Ma teniamoci al presente, e dunque oggi chi sono mai, per Ferri, questi vecchi scemi? La domanda viene spontanea, perché qualificare scemi i vecchi è cadere in un luogo comune, non meno trito di quello per cui vecchiaia equivale a saggezza.
     Dalla lettura dei tredici “pezzi” che compongono il libro si scopre che i vecchi in questione, avviliti o irati, sognanti o alle prese con il “logorio della vita moderna” (come diceva Ernesto Calindri ai tempi della tivù in bianco e nero, o postmoderna, come adesso si preferisce dire), hanno sì, è vero, dei problemi di senilità, degli acciacchi fisici, delle amnesie e così via, ma tutto sommato ragionano ancora e non sembrano poi tanto suonati, tant’è che io, che vado per i sessanta, non ho faticato molto a riconoscermi in certe loro fissazioni, ansie, sconfitte, malinconie, rancori più o meno trattenuti, quindi non credo di dire una sciocchezza se affermo che l’autore, che va per i settanta, ne parla a ragion veduta. E d’altra parte ironia e autoironia sono atteggiamenti caratteristici di quell’uomo colto, e va da sé intelligente che è Ferri, come sanno i suoi vecchi (sic) e affezionati lettori, tra i quali mi annovero.
     L’aggettivo scemo del titolo, che rimanda sia all’accezione di “non pieno, mancante di una parte” (haud plenus) che a quella dispregiativa di “deficiente, stolto, stupido, sciocco” (insanus homo), va perlomeno ripartito equamente tra i protagonisti di queste pagine e il mondo che li circonda, di chi a priori li considera appunto scemi.
     Gli attempati soggetti maschili e femminili presi in esame da Ferri soffrono infatti, in primo luogo, di solitudine, di isolamento, di abbandono, di un pensionamento non dal lavoro ma dalla vita, di un essere accantonati non richiesto, imposto dai parenti, dalla comunità, dalla società massmediatica dell’usa e getta… che poi, volendo essere tendenziosi, è la condizione in cui si trovano a vivere oggi i poeti vecchio stampo, quelli un po’ su con gli anni per intenderci, i quali si ostinano a scrivere libri magari belli e utili, però poco adatti al commercio… come implicitamente sembra suggerire il risvolto di copertina, laddove si legge che «i personaggi di questo libro hanno sguardi disincantati e crudi. E forse sta qui il punto, perché sono invecchiati proprio per guardare oltre le cose e attraverso il familiare aspetto che esse hanno. E se insistono sono anche un po’ scemi.»   
     Il suddetto risvolto (anonimo) avvisa inoltre di tredici “racconti”, ma certo per comodità, perché racconti in senso stretto non sono, piuttosto si tratta di descrizioni di tranches de vie, di un succedersi di fotogrammi – e giustamente Enrico Capodaglio poteva parlare, già a proposito di Dove guardi (2001) di «inquadrature sottili da fotoreporter della vita interiore» e di «paesaggi urbani alla maniera di Sironi e piani-sequenza che ricordano il primo Wenders.» In effetti hanno tutta l’aria di sinopie filmiche, il respiro corto e incalzante delle sceneggiature. Leggo a caso, p. 60: «Che cosa c’è di diverso nel 14 agosto rispetto agli altri giorni? Niente. È estate, c’è un caldo umido, grosse formazioni di nuvole, la colazione, il pensiero di arrivare all’ora di pranzo, che sembra un orizzonte lontano ma non mancherebbero certo le opportunità per arrivarci senza soffrire come un cane. Sennonché, è ricomparsa la sofferenza senza nome, ristagnante. In più, piove. Il cielo, zitto zitto, si è oscurato, è caduta qualche goccia, sollevando un odore di polvere bagnata. Poi è venuta giù una pioggia languida, snervante.»
     Tra i diversi personaggi spicca quello di Geremia, nome oggi in disuso e che pare riesumato pour cause direttamente dalla Bibbia (“Il libro più antico del mondo”, come annotava un divertito Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni), l’impopolare profeta lapidato infine dai suoi stessi compatrioti, qui senza la lunga e venerabile barba bianca e ripreso mentre «pensa di farsi due uova al tegamino, a occhio di bue, come diceva sua nonna, quarant’anni prima, forse anche più», ma non diversamente osteggiato, perseguitato, vox clamantis in deserto.

g. z.


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Marco Ferri, Vecchi scemi, Italic Pequod, 2017.

giovedì 1 giugno 2017

Gustave Flaubert







CATALOGO DELLE IDEE CHIC


Apologia della schiavitù.

Della notte di San Bartolomeo.

Deridere gli esperti.

Deridere gli studi classici.

Dire a proposito di un grande uomo: « È ridicolmente sopravvalutato! ». Tutti i grandi uomini sono sopravvalutati. Di grandi uomini non ce ne sono, peraltro.

Ammirare de Maistre.

Idem Veuillot.

Idem Stendhal.

Idem Proudhon.

Superficiali conoscenze scientifiche di Voltaire.

Mirabeau, nessun talento. Invece suo padre (che nessuno ha letto), oh!
Var.: Invece suo padre! E si cita una frase: « Povero uccello spaventato tra quattro torrette ».

Raffaello, nessun talento.

Molière, tappezziere delle lettere.

Charron, molto superiore a Montaigne.

Musset, molto superiore a Hugo.

Rabelais infangatore dell’umanità (Lamartine).

Omero: non è mai esistito.

Shakespeare: non è mai esistito, è stato Bacone a scrivere i suoi drammi.

Idea chic. « È massimamente evidente che le società europee di cultura altro non sono che pubbliche scuole di menzogna, e sicuramente vi sono più errori nell’Accademia delle Scienze che in tutta una nazione di Uroni » (J.-J. Rousseau, Emilio, III).


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In Dizionario dei luoghi comuni, prefazione e traduzione di J. Rodolfo Wilcock, Adelphi, Milano 1980, pp. 129-130. 

lunedì 1 maggio 2017

Georges Perec







Bisogna procedere più lentamente, quasi stupidamente. Sforzarsi di scrivere cose prive d’interesse, quelle più ovvie, più comuni, più scialbe.

La strada: cercare di descrivere la strada, di cosa è fatta, a cosa serve. La gente nelle strade. Le macchine. Che tipo di macchine? I palazzi: notare che sono piuttosto confortevoli, piuttosto ricchi; distinguere i palazzi d’abitazione dagli edifici pubblici.
I negozi. Cosa si vende nei negozi? Non ci sono negozi d’alimentari. Ah, sì, c’è una panetteria. Chiedersi dove la gente del quartiere fa la spesa.
I bar. Quanti bar ci sono? Uno, due, tre, quattro. Perché aver scelto questo? Perché lo si conosce, perché è al sole, perché è un bar-tabacchi. Gli altri negozi: antiquari, abbigliamento, Hi-Fi, ecc. Non dire, non scrivere «ecc.». Sforzarsi di esaurire l’argomento, anche se sembra grottesco, o futile, o stupido. Non si è ancora guardato nulla, si è solo scoperto quanto era già stato scoperto da tempo.

Costringersi a vedere più piattamente.

Percepire un ritmo: il passaggio delle macchine: le macchine arrivano a gruppi perché, più su o più giù nella strada, sono state fermate da qualche semaforo.
Contare le macchine.
Guardare le targhe delle macchine. Distinguere le macchine immatricolate a Parigi dalle altre.
Notare l’assenza di taxi, mentre, per l’appunto, sembra che parecchie persone ne stanno aspettando uno.

Leggere quanto è scritto nella strada: colonne Morris, edicole, manifesti, cartelli stradali, graffiti, dépliant gettati per terra, insegne dei negozi.

Bellezza delle donne.
Vanno di moda i tacchi troppo alti.



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Da Specie di spazi, traduzione di Roberta Delbono, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp. 62-63.

sabato 1 aprile 2017

Blaise Cendrars







Oggi è il giorno del tuo Nome, Signore,
Ho letto in un vecchio libro le gesta della tua Passione,

E la tua angoscia e i tuoi travagli e le tue buone parole
Sono le lacrime di quel libro, dolcemente monotone.

Un monaco di un altro tempo mi parla della tua morte.
Tracciava la tua storia con lettere d’oro

In un messale posato sulle ginocchia.
Piamente lavorava ispirandosi a Te.

Seduto con la sua veste bianca, dietro l’altare,
Lentamente lavorava dal lunedì alla domenica.

Le ore si fermavano al limitare del suo eremo.
Chinato sulla tua immagine, lui si dimenticava di tutto.

A vespro, quando salmodiavano le campane,
Il buon frate non sapeva se era il suo amore

O se era il Tuo, Signore, o il Padre tuo
A bussare a gran colpi alle porte del monastero.

Sono come quel buon monaco, stasera, mi sento inquieto.
Nella stanza accanto, un essere triste e muto

Aspetta dietro la porta, aspetta che io lo chiami!
Sei Tu, è Dio, sono io – è l’Eterno.


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Dal poemetto Pasqua a New York, in Poesie, a cura di Luciano Erba, Nuova Accademia Editrice, Milano 1961, pp. 47-48, testo originale p. 179.

venerdì 3 marzo 2017

Blaise Cendrars







Menù


I

Fegato di tartaruga verde trifolato
Aragosta alla messicana
Fagiano della Florida
Iguana in salsa caribba
Gombos e germogli di palma arec

II

Salmone del Rio Rosso
Prosciutto d’orso del Canada
Rosbif delle praterie del Minnesota
Anguille affumicate
Pomodori di San Francisco
Birra inglese e vini californiani

III

Salmone di Winnipeg
Prosciutto di montone alla scozzese
Patate Royal-Canada
Vecchi vini francesi

IV

Ostriche di Kankal
Insalata di gamberi e cuori di sedano
Lumache francesi vanigliate
Pollo del Kentuchy
Desserts caffè whisky canadese

V

Pinne di pescecane in salamoia
Cuccioli nati-morti al miele
Vino di riso alla violetta
Crema di bozzoli
Lombrichi salati e acquavite di Kawa
Marmellata di alghe di mare

VI

Manzo in scatola di Chicago e salumi tedeschi
Aragosta
Ananas goyaves nespole del Giappone noci di cocco
     manghi mele alla crema
Frutti dell’albero del pane al forno

VII

Zuppa di tartaruga
Ostriche fritte
Piedino d’orso trifolato
Aragosta alla giavanese

VIII

Guazzetto di gamberi di fiume al pimento
Maiale di latte con contorno di banane fritte
Istrice al ravensara
Frutta

in viaggio 1887-1923


.................................................................................................................................................................. Da Poesie, a cura di Luciano Erba, Nuova Accademia Editrice, Milano 1961, pp. 133-135, testo originale pp. 231-232.

mercoledì 1 marzo 2017

Kamen'







«Con il numero 50 (Gennaio 2017), della Rivista Internazionale di Poesia e Filosofia «Kamen’», nata nel 1991 per iniziativa di alcuni autori e studiosi, che intendevano contribuire ad un rinnovamento della cultura italiana e contrastarne il decadimento, originato dall’abbandono sempre più evidente dell’alta cultura, si entra nel ventiseiesimo anno di vita di un progetto, inteso in senso forte, che è stato dedicato principalmente allo scavo delle tradizioni della cultura europea ed italiana proiettate in tale dimensione, ma che, nel contempo, si è aperto via via alla Weltliteratur
    Queste le prime parole dell’articolo che apre il n° 50 di «Kamen’», intitolato appunto Venticinque anni di lavoro, che non sono davvero pochi. L’articolo si chiude con un toccante ricordo: «Questo cinquantesimo numero è dedicato alla memoria dei nostri redattori scomparsi, senza i quali la rivista non sarebbe quella che è: a Daniela Cremona, a Birgitta Trotzig, a Luigi Commissari.»
     La dedica è ovviamente del Direttore responsabile Amedeo Anelli e dell’attuale Comitato Scientifico e di Redazione, costituito dallo stesso Anelli, Gianni D’Amo, Angelo Genovesi, Christine Koschel, Daniela Marcheschi, Luisa Marinho Antunes, Stefania Sini, Richard H. Weisberg.
     A me non resta che complimentarmi con tutti loro per l’impeccabile lavoro sin qui condotto, e augurare lunga vita a «Kamen’».


g. z.