martedì 1 marzo 2016

Pierre-Auguste Renoir





Bal au Moulin de la Galette, 1876, Musée d’Orsay, Parigi.    


   Tentai di portare la conversazione sul terreno dell’arte. Io stesso avrei visitato l’Italia molto tempo dopo, ma la conoscevo un po’ attraverso le riproduzioni. Mio padre rimaneva sordo alle mie insinuazioni: «La pittura non si racconta, si guarda. Non servirebbe a nulla dirti che le cortigiane di Tiziano fanno venir voglia di accarezzarle. Un giorno, andrai tu stesso a vedere i quadri di Tiziano e, se non ti faranno nessun effetto, vuol dire che di pittura non ne capisci nulla. E non sono certo io che posso farci qualcosa!». Poi, in apparente contraddizione con l’affermazione precedente, dichiarava: «Con la pittura ci si vive, non la si guarda. Hai un piccolo quadro in casa tua; lo guardi solo di rado e soprattutto senza mai analizzarlo. Eppure diventa una parte della tua vita, agisce come un talismano. I musei servono in mancanza di meglio. Come puoi entusiasmarti davanti a un quadro, se sei circondato da una ventina di visitatori che sussurrano sciocchezze? Nei musei bisogna andarci molto presto al mattino, per avere qualche possibilità di goderseli in pace!».
   Il suo carattere lo spingeva raramente a formulare un giudizio; ma quando questo avveniva, lo formulava in termini più che chiari. «Leonardo da Vinci mi annoia. Avrebbe dovuto limitarsi alle sue macchine volanti. I suoi apostoli e il suo Cristo sono sentimentali. Sono assolutamente certo che quei bravi pescatori ebrei sapevano rischiare la pelle per la loro fede senza sentirsi obbligati a fare quegli occhi da pesce fritto!». A Franz Jourdain, l’architetto della Samaritaine, che gli chiedeva se preferisse Rembrandt o Rubens, rispose invece: «Non assegno premi».


............................................................................................................................................
Jean Renoir, Renoir, mio padre (1962), Adelphi, Milano 2015, pp. 215-216.