domenica 4 dicembre 2016

Guido Gozzano








Intender non mi può. Tacitamente
il braccio ignudo premo come zona
ristoratrice, sulla fronte ardente.

Gelido è il braccio ch’ella m’abbandona
come cosa non sua. Come una cosa
non sua concede l’agile persona…

– O yes! Ricerco e aduno senza posa
capelli illustri in ordinate carte:
l’illustrious locks collection più famosa.

Ciocche d’illustri in scienza in guerra in arte
corredate di firma o documento,
dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte…

(Mordicchio il braccio, con martirio lento,
dal polso percorrendolo all’ascella
a tratti brevi, come uno stromento).

– E voi potrete assai giovarmi nella
Italia vostra, per commendatizie…
– Dischiomerò per voi l’Italia bella!

– Manca d’Annunzio tra le mie primizie;
vane l’offerte furono e gli inviti
per tre capelli della sua calvizie…

– Vi prometto fin d’ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando
a maggior gloria degli Stati Uniti…–

L’attiro a me (l’audacia superando
per cui va celebrato un cantarino
napolitano, dagli Stati in bando…);

imperterrita indulge al resupino,
al temerario – o numi! – che l’esplora
tesse gli elogi di quel suo cugino.

Ma sui confini ben contesi ancora
ben si difende con le mani tozze,
del pugilato esperte… – In Baltimora

il cugino l’attende a giuste nozze.



............................................................................................................................................
Terza e conclusiva parte di Ketty, presa dalla sezione Liriche varie de I colloqui, edizione definitiva, S. A. Fratelli Treves Editori, Milano 1935, pp. 163-165. 

sabato 5 novembre 2016

Franco Marcoaldi







Niente lo emozionava
come il profumo del tiglio
in fiore, come quel torpore
soave che risaliva alle narici
dalle lontane, perdute ore dell’infanzia.



............................................................................................................................................In La trappola, Einaudi, Torino 2012, p. 29.

sabato 1 ottobre 2016

Chuang-Tzu







L’addestramento del gallo


Chi Hsing-tzu addestrava un gallo da combattimento per il re. Dopo dieci giorni costui gli chiese se fosse pronto.
   «Non ancora» gli rispose Chi Hsing-tzu. «È stoltamente arrogante e presuntuoso.»
Dopo dieci giorni il re s’informò di nuovo. «Non ancora» gli disse l’altro. «Reagisce alle ombre e agli echi.»
   Dopo dieci giorni il re s’informò di nuovo. «Non ancora» gli disse l’altro. «Ha lo sguardo battagliero e il temperamento collerico.»
   Dopo dieci giorni il re s’informò di nuovo. «Ora può andare» gli disse l’altro. «Non si muove nemmeno se c’è un gallo che lancia un grido. A guardarlo sembra di legno. La sua perfezione individuale è completa. Un gallo che non sia come lui non oserà fronteggiarlo e fuggirà.»




Gli scassinatori di forzieri


Per difendersi dai ladroni che scassinano i forzieri, frugano nei sacchi e aprono gli armadi, si lega strettamente con corde e funi e si serra strettamente con catenacci e chiavistelli. Questo è ciò che viene comunemente chiamato prudenza. Però, se sopraggiunge un abile ladro, costui afferra il sacco, si mette sulle spalle l’armadio e il forziere e scappa, temendo soltanto che le corde e le funi, i catenacci e i chiavistelli, non siano troppo forti. Dunque, ciò che sembra prudenza non è altro che un aiuto per il ladro.
   Coloro che sono detti comunemente saggi o santi non aiutano in realtà i grandi ladroni?



........................................................................................................................................................
Da La calma, a cura di Claudio Lamparelli, Oscar Mondadori, Milano 2010, pp. 76 e 100.

giovedì 1 settembre 2016

Jean Robaey







dall’epica


seduto guarda verso la terra sente
dietro il mare
l’onda salire in sé dal cuore alla gola
quale cristo seduto sulla pietra
risponde o è già stato giudicato
già incoronato di spine e comincia
a perdersi lo sguardo verso l’alto
così il tuo con paletò e cappello
largo dalle larghe tese
battere nero
te la ricordi misteriosa luminosa
il mare che è femmina
lei a cui davi la mano
sei stato pazzo a perderla
corsa via a giocare con le onde
non so neanche come pronunciarla
raccoglie i resti della barca
i legni dispersi per la spiaggia
sopraffatti dall’onda
a farne un falò per la notte fredda mentre lei
la sente ancora piange lontana mentre lei
la sente ancora piange lontana cambia
la voce e l’aspetto fatica a distinguere
silenzio e pace cielo sole onde
ombre l’amaro dal brusco a dire
il fresco dell’alba o il freddo della notte
sopraffatto dall’onda che sente
battere alle sue spalle contro
lei che lo porta
se neanche la parola qui ci sarà
gocce che sono lacrime
ma non è lui che guarda sente
solo né solo importa il porto
vecchio il quartiere dove è nato
che sia tutto scomparso non è solo
a perdersi lo sguardo verso l’alto
a sentire dietro di sé il mare
salire dal cuore che batte irregolare
o meglio soffocato dal rumore dell’onda
non è solo
dispersa fu la barca i legni
alla fine l’ha trovata era il rumore
alla fine si volta
sicché sei pronto ora a riceverla


lunedì 1 agosto 2016

Leonardo Sinisgalli







I critici chiedono alla poesia concetti e sistemi. Leggo acute analisi, m’informo di tutte le operazioni chirurgiche, alcune assai delicate ch’essi conducono con la benda davanti alla bocca per arrivare al midollo spinale del povero poeta smidollato. Gli attribuiscono capacità nervose, capacità intellettuali, capacità dialettiche. Cercano la logica nei poeti. E pensare che la filosofia dei poeti è una così povera cosa al confronto della loro poesia! La loro scienza non giova alla poesia quanto giova la loro innocenza. Il mio sforzo di scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza. Sono cresciuto negli anni senza guadagnare nessuna certezza che potesse servire da struttura alla mia poesia. Credo di non sapere ancora quale sia precisamente il mestiere del poeta. Non conosco una sola regola valida in ogni caso. I risultati buoni o cattivi non saranno mai prevedibili. Non ho mai chiesto alla poesia di aiutarmi a risolvere i miei problemi. La poesia, l’ispirazione, non ho avuto la possibilità e la pazienza di conformare il mio disordine ai loro capricci. Ho aspettato a ore fisse. Il poeta non predispone ma raccoglie. Le sue predilezioni possono sembrare sconcertanti, egli fabbrica le gerarchie sul momento. Non cerca la lepre, ma cerca l’unità. I versi hanno una concatenazione che non si rivela in superficie. Convergono verso un punto che le stratificazioni possono nascondere a qualunque scandaglio, un cuore introvabile. Spesso il critico è quel piccolo animale che strisciando sulla sfera non saprà mai giungere al centro perché non ne conosce la formula, la forma.


........................................................................................................................................................Da L’età della luna, Mondadori, Milano 1962, in L’ellisse, Poesie 1932-1972, a cura di Giuseppe Pontiggia, Mondadori, Milano 1974, pp. 95-96.

venerdì 1 luglio 2016

Massimo Raffaeli




Raffaeli con Ferruccio Benzoni in un locale di Piazza Plebiscito ad Ancona, marzo 1994 (foto g. z.).


Antefatto per Franco Scataglini

A vent’anni scrivevo poesie come tutti, più o meno. Erano brutte poesie, o meglio poesie straordinariamente elaborate, oscure, complicate. Leggevo e rileggevo i poeti di qualunque epoca, e ogni tanto ne scrivevo di mie. Mi piaceva farlo, pure se mi stremava. Tendevo a considerare una riuscita la loro complessità, il tot di fatica che richiedevano nel decifrarle, posto che davvero fosse possibile dedurne un senso. Avevo intitolato la mia raccolta inedita (in realtà scrivevo a mano su un quaderno scolastico con la spirale) Rime petrose, pomposamente, per il semplice fatto che la lezione di Gianfranco Contini (di cui leggevo con avidità gli scritti per averlo sfiorato a Firenze studiando alla Laurenziana un manoscritto per la mia tesi di laurea) imponeva al neofita che io ero soggezione immediata alla linea dell’espressionismo e dello sperimentalismo, dunque a Dante, Campanella, Tommaseo, giù  giù fino a Rebora e Montale.

Alcune  poesie le avevo pubblicate, con l’incoscienza  appunto dei vent’anni, fra il ’78 e il 1980, su due riviste: un primo gruppo su “La città futura” (il settimanale dei giovani comunisti, con una nota incoraggiante di Roberto Roversi) e un secondo col soccorso di Gianni D’Elia in “Le Porte”, un fascicolo redatto a Bologna, la città dove avevo studiato, da Gianni Scalia. (Un altro testo, scritto su commissione, mi era stato pubblicato da Paese sera il giorno dopo la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Aveva un titolo stupendo, purtroppo non mio, cioè Ho sognato di essere vivo: era la frase di un sopravvissuto ancora sotto le macerie, ascoltata alla radio). Intanto, nel settembre del ’79, avevo conosciuto Franco Scataglini e subito avevo cominciato a frequentarlo, a collaborare con lui. Gli chiedevo di continuo un giudizio sulle mie poesie, lui pareva avallarle ma nella sostanza non si sbilanciava, anzi non si pronunciava; così, mi sorprese il fatto che accettasse la pubblicazione di un terzo gruppo di liriche nella plaquette a sei mani Da una città (Il lavoro editoriale 1981) a firma innanzitutto sua e di Francesco Scarabicchi: quelle del sottoscritto erano particolarmente ermetiche, intarsiate, il loro significato si voleva premonitorio però, alla lettera, sfuggiva anche a me. Eppure credevo di avercela fatta. Solo la reticenza di Franco e i suoi silenzi imperscrutabili mi davano inquietudine. Cominciavo ad avvertire impercettibilmente che quei versi non lo persuadevano, che qualcosa non andava, e che stava cercando le parole o il pretesto per dirmelo. Intanto aspettavo, ero ansioso e non avevo modo di confessarlo nemmeno a me stesso.
     
Finché un giorno, all’improvviso, e non c’entrava nulla col discorso che stavamo facendo, si alzò dalla poltrona  del suo vecchio studio a metà di via Pizzecolli in Ancona (fuori c’era un tramonto incandescente, entrava dalla finestra una luce bellissima) e mi diede da leggere una pagina che ignoravo, mettendomela proprio sotto il naso. Si trattava della più folgorante tra le Scorciatoie di Umberto Saba :  Mallarmé e la Musa. Quando non si può entrare in  profondità, si complica e si nasconde. E’ umano ma non nascono figli.” Non c’era altro da aggiungere, l’aforisma  diceva tutto. Giorni dopo mi arrivò una sua lettera, come al solito dattiloscritta, che  fu  una disperazione e insieme la liberazione. Era una lettera durissima, spietata, onesta: mi diceva che quei versi gli restituivano l’immagine di “borchie gelate come dentro cucchiai d’acqua”, che erano decisamente dotti, che non sfiguravano. Però aggiungeva che non risuonavano da nessuna parte, che lui non ne sentiva la fondatezza o l’intima necessità. Insomma essi parlavano, cantavano il loro canto oscuro ma non “dicevano”, né sapevano vibrare. La lettera aveva un poscritto dove mi ricordava la tipica e precoce attitudine a puntare il dito tenendo lezione alla realtà, ma dove mi rammentava altrettanto che la realtà non tollera lezioni (semmai, viceversa) e  meno che mai da simili lezioni può scaturire la poesia, la quale si origina invece dall’ascolto, dall’apertura, dall’assoluta messa a rischio di sé.
     
Per mesi e mesi mi sono sentito ingiustamente giudicato, sottovalutato, annientato. Stavo male, molto male, e tuttavia non riuscivo a volergliene. Fatto sta che da allora, smaltendo via via la sofferenza, non ho più scritto poesie, neanche di quelle che devono restare segrete. Ho continuato a leggere le poesie degli altri, poi a studiarle, e a scrivere di esse. Infine il dolore non l’ho più sentito; la ferita che prima sanguinava si è presto cicatrizzata irrorandosi con le parole che sentivo volta a volta più prossime, fraterne, e non importa se di altri. E’ così che ho potuto paradossalmente riconoscere l’amore primordiale per la poesia ed è così che sono diventato un filologo, per etimologia e per forza. Lo debbo a Franco Scataglini, alla sua vicinanza e al suo affetto, grande e spietato. Questo oggi lo so bene,  anche se è troppo tardi per dirglielo, per ringraziarlo.


..............................................................................................................................................Da “nostro lunedì”, 4, 2004, in L’amore primordiale, Gaffi editore, Roma 2016, pp. 11-13.

mercoledì 1 giugno 2016

Luciano Erba




Con Luciano Erba a Milano il 14 agosto 1990. Foto scattata da Mimia Erba.


Il passaggio


Tra colline spaccate a V
cercando una giovinezza indeterminata e possibile
svalutando le tracce
interrogando le tracce
in terre di cielo giallo
circondato da province che mi disarmano
col loro sguardo di bambino
deciso a farla finita
con le solite dimensioni, a extrapolarmi
o, più semplicemente, a togliermi da un contesto
uscendo allora sulla campagna di neve
fino a smarrire ogni più lucido strumento d’analisi
finché l’oriente non sia altro
che un lungo graffio nel cielo
un segno di mattone sul muro
una macchia viola di viole
di vino sulla tovaglia di fiandra
mentre la prima goccia di pioggia
rotolava sul campo di bocce
e il duca di Mantova
                            soltanto
la neve è esatta, esatta come la croce
due bracci di ferro nel nulla

Ma con che animo

colline divaricate lontane
in attesa d’oscuro viaggio notturno
impreparate e fedeli
a un paziente rumore d’industrie
smarrite dalla folata dei treni
che vi attraversano come speranze di diciotto anni
colline, passaggio
di contraddizione




Perché non io


perché non io lungo lo stradale
almeno fino al passaggio a livello
tra i lillà delle ville
della valle del Tanaro
le mie figlie per mano
le scarpe bianche di cuoio
la cintura al buco più largo
perché non io
dopopranzo la sera




..................................................................................................................................................... 
Da Il prato più verde, Guanda, Milano 1977, in Poesie (1951-2001), a cura di Stefano Prandi, Mondadori, Milano 2002, pp. 95-96, 106. 

domenica 1 maggio 2016

Renato Turci




Cesena, 19 aprile 1987 (foto g. z.)


Essere

Si potrebbe quasi avvertire
la salsedine del mare
tanta è l’aria che ci giunge
e si potrebbe, a tratti,
anche sentire l’odore pungente degli abeti,
volgendoci a guardare
dove sono i monti.

I colombi a coppie fanno elissi
contro l’azzurro del cielo
dove gli occhi amano fermarli ad ali estese.

Negli spazi liberi
tra le case appena finite
e i nuovi cantieri
un uomo raccatta mattoni.


Con attenzione

Vado agli estremi confini
del tuo viso
e ritorno.
Ma devo ogni volta
partire dal centro
del mio io
per essere sicuro di vederti.

Lo faccio con attenzione
perché da un istante all’altro
siamo diversi.


Ritorno del padre

Da quando non sei più presenza viva
che riempie i giorni nostri d’imprevisti
più non t’accampi contro
più non ti scaccio
non mi nascondo più.

Morte ti tolse l’ultimo volo
e me lo diede:
con i tuoi passi cammino
e con i tuoi pensieri.


Problemi

Mi getto fuori.
C’è da superare
il limite tra l’interno e l’esterno
poi il problema della gravitazione
che credevo non mio.
La soluzione
dipende dall’altezza della finestra
e dalla velocità di caduta.



............................................................................................................................................ 
Da I ritorni, con una Finestra di Ernestina Pellegrini, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1993.

venerdì 1 aprile 2016

Giorgio Orelli




Foto scattata da Mimma Orelli, Bellinzona, 3 novembre 2001.



Due ragni

Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diàfani a furia di guardarli, quasi
trascoloranti in rosa:
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nèi su una spalla,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda;
una volta soltanto
è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli è sparito
in fretta nel gran bianco
e dunque non li ha visti
calarsi a un tratto
sincronici, sostare penzolando
nel vuoto, dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti alle filiere
troppo presto esaurite? saggiando
il peso d’essere, il mistero?
Un attimo, già stanno
per risalire divorando filo
e distanza: per fingersi di nuovo
due disperse crisalidi,
due punti nei dintorni
di me.



............................................................................................................................................ 
In Tutte le poesie, a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, bibliografia di Pietro Montorfani, Mondadori, Milano 2015, pp. 341 e 342.

martedì 1 marzo 2016

Pierre-Auguste Renoir





Bal au Moulin de la Galette, 1876, Musée d’Orsay, Parigi.    


   Tentai di portare la conversazione sul terreno dell’arte. Io stesso avrei visitato l’Italia molto tempo dopo, ma la conoscevo un po’ attraverso le riproduzioni. Mio padre rimaneva sordo alle mie insinuazioni: «La pittura non si racconta, si guarda. Non servirebbe a nulla dirti che le cortigiane di Tiziano fanno venir voglia di accarezzarle. Un giorno, andrai tu stesso a vedere i quadri di Tiziano e, se non ti faranno nessun effetto, vuol dire che di pittura non ne capisci nulla. E non sono certo io che posso farci qualcosa!». Poi, in apparente contraddizione con l’affermazione precedente, dichiarava: «Con la pittura ci si vive, non la si guarda. Hai un piccolo quadro in casa tua; lo guardi solo di rado e soprattutto senza mai analizzarlo. Eppure diventa una parte della tua vita, agisce come un talismano. I musei servono in mancanza di meglio. Come puoi entusiasmarti davanti a un quadro, se sei circondato da una ventina di visitatori che sussurrano sciocchezze? Nei musei bisogna andarci molto presto al mattino, per avere qualche possibilità di goderseli in pace!».
   Il suo carattere lo spingeva raramente a formulare un giudizio; ma quando questo avveniva, lo formulava in termini più che chiari. «Leonardo da Vinci mi annoia. Avrebbe dovuto limitarsi alle sue macchine volanti. I suoi apostoli e il suo Cristo sono sentimentali. Sono assolutamente certo che quei bravi pescatori ebrei sapevano rischiare la pelle per la loro fede senza sentirsi obbligati a fare quegli occhi da pesce fritto!». A Franz Jourdain, l’architetto della Samaritaine, che gli chiedeva se preferisse Rembrandt o Rubens, rispose invece: «Non assegno premi».


............................................................................................................................................
Jean Renoir, Renoir, mio padre (1962), Adelphi, Milano 2015, pp. 215-216.