martedì 1 dicembre 2015

g. z.








Quel bambino con la gamba ingessata
che guardava da una finestra
il viavai della gente
fuori dall’ospedale, beata!

Quel bambino tanto paziente
dicevano le infermiere
- come se un’altra estate
non fosse già passata!

Vaglielo tu a spiegare
che tutto alla fine torna
che ognuno ha il suo destino

che non c’era niente di strano
se lui era lui                                    
e gli altri erano gli altri.


 Di Cesare

Può sembrare strano che Cesare, nel Bellum civile, riferisca di avere atteso a Ravenna i tribuni della plebe fuggiaschi da Roma, quindi della sua prima sosta oltre il confine della Gallia cisalpina, nella conquistata Rimini, senza spendere una parola sul passaggio del Rubicone, per noi posteri tanto più memorabile.
Eppure grazie a questa dimenticanza lo scrittore ottiene di farci conoscere il grande condottiero meglio, a mio parere, dei biografi che invece non hanno resistito alla tentazione di rievocare l’episodio, tra l’altro citando frasi che egli avrebbe pronunciato per l’occasione, «Iacta alea est» su tutte.
Ho preferito chiamarla dimenticanza, non sapendo decidermi tra due termini senza dubbio più calzanti, omissione o omertà, perché comunque non si può certo intenderla come una sbadataggine. 
Vuoi che il confine del Rubicone fosse talmente noto ai suoi tempi, cosicché Cesare ritenne superfluo ricordarlo ai lettori, vuoi che l’attraversamento di un torrente, e questo si può darlo davvero per scontato, ben poco avesse a che spartire con le gestae da tramandare.
Che poi si tratti del Fiumicino di Savignano di Romagna, ora Savignano sul Rubicone, come decise Mussolini nel 1933, oppure del Pisciatello che scorre nei pressi di Cesena, come diversi studiosi sostengono, questa dei campanili è già un’altra storia, di noi comuni cittadini.



domenica 1 novembre 2015

Fabio Pusterla







VIA TRINCHESE


Mite città del sud corsa dallo scirocco
luce quasi orientale strade bianche;
ma lungo via Trinchese il segno nero
orrido sopra il muro: «Pasolini
appeso». Pasolini chi, ci chiediamo,
Pierpaolo? Ma è già stato massacrato
in vita e in morte: adesso ancora
appeso? Vilipeso
quarant’anni più tardi?  E da chi?

O forse è un altro
Pasolini: il compagno più inviso,
un insegnante odiato o odioso,
un qualsiasi presunto nemico, un tifoso
da massacrare in sogno, da squartare
per sfogare una rabbia che cova?
(Quanti Pasolini massacrabili quanti
massacratori smaniosi… ) E poi:
appeso come, appeso dove?

Appeso come un gerarca
sconciato, sottratto alla parola e all’accusa,
ridotto al silenzio? O appeso ad un fanale,
in una notte bianca e nera di Parigi,
a comporre l’arcana
figura dei tarocchi
da poeta nervoso?  O sotto un ponte
di Londra, sul Tamigi affumicato,
come un banchiere troppo esoso,
troppo pericoloso o troppo inutile
rotella dell’ennesimo mistero
gaudioso d’Italia? Appeso a un gancio
come una bestia sgozzata,
a una putrella a una trave portante,
a un arco di rovina?

O appeso al nulla,
come un bimbo innocente
gettato a riva dal mare
e subito rappreso
in icona del rimorso collettivo
di un’Europa rancorosa
timorosa e divisa
Europa sussiegosa che è caduta
dalla groppa del toro nella polvere sulfurea,

o appeso come noi
oggi qui appesi all’assenza
di un senso di un progetto dignitoso,
con gli occhi persi di fronte
a questa scritta ignobile che parla
per tutti, che dice
il punto dell’orrore forse il punto
di non ritorno, la tempura
in cui friggiamo e geliamo
malmostosi e ancora increduli
che per certo lì vi sia quel che c’è scritto,
che possa quella cosa essere vera? (E lo è.)




FRAMMENTI METROPOLITANI


Da che luce d’altopiano da che crollo
memoria di boato o di schianto
viene l’uomo che adesso si appoggia al muro di un sottopassaggio
e piange e sembra grugnire scuote un ringhiera
dicendo tra le lacrime non so,
io davvero non so che cosa mi stia succedendo, ma è terribile
e bellissimo e ingiusto, e intanto gli passano accanto
donne su biciclette, bambini vestiti di giallo,
e sopra la sua testa i suoi sogni o fantasmi lentissime piovre,
corrono vagoni ripieni di merci, automobili,
piccoli e grandi vortici,

se ora ripensa forse a una strada brulicante di Ginevra
dove l’ignoto italiano diceva all’amico, con tono
grave, perché poi il sangue piccolo
si mescola col sangue grande, e questo non deve
capitare mai, tu m’intendi, mai,
e nessuno poteva capire davvero
a quale oscura catastrofe si riferisse,
guardando senza vedere vetrine addobbate
di scarpe alla moda, computer, ma certo
catastrofe era, spavento,

e poi in corso Manzoni, diciamo, ricorda una donna
che grida e singhiozza perché
tu non vuoi stare con me? perché, perché? non ti sento                                              
già più e si accascia, il telefono cade, si spegne
e una folla la inghiotte
Milano la strozza Milano la prende
e intanto una mano dipinge sul muro una scritta: che cosa
amici ci sta capitando, a noi tutti? Che cosa?
E la gioia: chi ha rubato la gioia?,

se adesso non rende
memoria o speranza alcun mare,
se ciò che rintocca è il martello
pneumatico sordo dei giorni
e lui tutto questo si dice e ripete. Poi torna
nel traffico, mangia un’albicocca, aspetta il tram.


giovedì 1 ottobre 2015

Elio Tavilla








certo, alla fine i fiori esistono, ma non è per questo che i maiali
ci angustiano con quel dolore da predestinati, lo avranno visto anche loro
il mortale distendersi delle petunie o delle ortensie o ancora i girasoli
con la vaga dissolvenza dilatata all’infinito... Vira al temporale il nostro pomeriggio.
Avevi con te la borsa e la coperta, niente cuoricini infranti sopra i legni scheggiati
dei lecci, e quindi: perché quel palpitare inutile di carni commestibili, lo sai
ti mangerei da viva se proprio lo vuoi detto. Non approvi, continui a camminare
nel breve ti avrei detto qualcosa di trascorso e invece la sirena interrompe
ogni scampo, una cosa per volta – mirare, fingere, sparare


*


sette  di sera, non ho mangiato nulla da due giorni, qualcosa
fuoriesce dallo spazio interstellare, un’ernia indivisibile che le truppe
francesi avrebbero sconfitto come ad Austerlitz o ad Alessandria, le bestie
assiepate sugli spalti come ultima cosa viva da toccare. Però me lo dicevi
che a due giorni da qui c’erano i dolori, ridacchiavi al lugubre messaggio
dei morti: «Butta via la foia che hai in corpo, assièpati come le bestie sugli spalti
sei la carne da cannone del secolo ventuno, uno come tanti». A braccetto
espiavamo le colpe, davanti a un cumulo di ossa consumavamo
il pasto delle fiere


luglio-agosto 2015

martedì 1 settembre 2015

Herman Melville







97. La lampada

   Se foste scesi dalla raffineria del Pequod al castello di prua dove dormivano gli uomini smontati dalla guardia, per un singolo momento avreste quasi creduto di trovarvi in qualche rilucente sacrario di re e di consiglieri canonizzati. Là i marinai giacevano nelle loro triangolari cripte di quercia, ognuno immerso in un silenzio di pietra, mentre la luce di una ventina di lampade colpiva i suoi occhi chiusi.
   Sui mercantili, l’olio per i marinai è più scarso del latte di regina. Vestirsi al buio, mangiare al buio e raggiungere, inciampando nell’oscurità, il proprio giaciglio: questa è l’abitudine. Ma il baleniere, che va alla ricerca dell’alimento della luce, vive perciò nella luce. Fa della sua cuccetta una lampada d’Aladino e ci si corica, così che anche nella notte più scura il nero scafo della nave ospita sempre una luminaria.
   Guardate con che libertà assoluta il baleniere porta il suo mucchio di lampade – benché spesso non siano che vecchie bottiglie e fiale – al refrigeratore di rame della raffineria, per riempirle come boccali di birra a un barile. Brucia anche il più puro degli olii, al suo stato grezzo, e perciò incorrotto; un fluido sconosciuto ai congegni solari, lunari o astrali della terraferma. È un olio dolce come il burro della prima erba d’aprile. Lui ne va a caccia, così da poter essere certo della sua freschezza e della sua genuinità, proprio come il viaggiatore delle praterie va per suo conto a caccia della selvaggina di cui si ciba.



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Da Moby Dick, cura e traduzione di Pietro Meneghelli, Newton Compton, Roma 2004, p. 337.

sabato 1 agosto 2015

Gottfried Benn







Chopin


Conversatore avaro,
le opinioni non erano il suo forte,
le opinioni non vanno mai al sodo,
s’agitava quando Delacroix
illustrava teorie, quando a lui non avrebbe
saputo spiegare i suoi Notturni.

Debole amante;
un’ombra a Nohant
dove i figli di George Sand
rifiutavano i suoi
consigli pedagogici.

Tisico in quella forma,
con emottísi e cicatrizzazioni,
che tira in lungo;
morte tranquilla
a differenza d’una
con spasmi e parossismi
o per salva di colpi:
spinsero il piano (Erard) vicino alla porta
e Delphine Potocka
gli cantò nell’ora estrema
il Lied della violetta.

Andò in Inghilterra con tre pianoforti:
Pleyel, Erard, Broadwood,
la sera suonò per 20 ghinee,
un quarto d’ora,
dai Rothschild, dai Wellington, a Strafford House
e davanti a innumerevoli Ordini della Giarrettiera;
incupito di stanchezza e di morte
ritornò a casa
in Square d’Orléans.

Poi brucia i suoi schizzi,
i suoi manoscritti,
che non ci fossero resti, frammenti, annotazioni,
questi indizi rivelatori –
alla fine disse:
«Le mie opere sono compiute nella misura di ciò
che mi era dato raggiungere».

Ogni dito doveva suonare
secondo la propria conformazione,
il più debole è il quarto
(solo un fratello siamese del medio).
Quando attaccava, posavano sul
mi, fa diesis, sol diesis, si, do.

Chi di lui mai sentì
certi preludi,
sia in ville che in alte
valli sui monti oppure
da porte spalancate su terrazze
per esempio in un sanatorio,
difficilmente potrà dimenticarlo.

Mai composto un’opera,
mai sinfonia,
solo queste tragiche progressioni
per convinzione d’artista virtuoso
e con una piccola mano.



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Da Poesie Statiche, introduzione e traduzione di Giuliano Baioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 8-11.

mercoledì 1 luglio 2015

François Truffaut







   Un giorno del 1942, avevo una gran voglia di vedere Les visiteurs du soir (L’amore e il diavolo, 1942), il film di Marcel Carné arrivato finalmente al mio quartiere, al cinema Pigalle, e decisi di non andare a scuola. Il film mi piacque molto. Ma quella sera stessa una mia zia, che studiava al conservatorio, passò da me per portarmi al cinema. Aveva già fatto la sua scelta: Les visiteurs du soir e, dato che non era proprio il caso di confessare che lo avevo già visto, me lo dovetti rivedere, facendo finta di scoprirlo solo allora. Fu esattamente quel giorno che mi accorsi di quanto era affascinante penetrare sempre più intimamente nell’opera che ci piace fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione.
   Un anno dopo arrivava Le corbeau (Il corvo, 1943) di Clouzot che mi piacque ancor di più: dalla sua uscita (maggio 1943) alla liberazione, che segnò la sua proibizione, lo avrò visto cinque o sei volte. Più tardi, quando tornò in circolazione, lo rividi più volte all’anno fino a conoscerne i dialoghi a memoria, dialoghi molto più spinti di quelli degli altri film e comprendenti un centinaio di parole forti di cui andavo poco a poco scoprendo il significato; tutto l’intreccio di Le corbeau era basato su un’epidemia di lettere anonime che denunciavano aborti, adulteri e corruzioni varie, fornendo un’immagine abbastanza fedele di quello che vedevo attorno a me, guerra, dopoguerra, collaborazionismo, delazione, mercato nero, espedienti vari e cinismo.
   I miei primi duecento film li ho visti in clandestinità, disertando la scuola o entrando in sala senza pagare – attraverso le uscite di sicurezza o le finestre dei gabinetti – oppure approfittando, di sera, dell’assenza dei miei genitori e con la necessità, quindi, di trovarmi a letto fingendo di dormire al loro rientro. Pagavo questo piacere con forti mali di pancia, lo stomaco imbarazzato, i capelli dritti dalla paura, tutto preso da un senso di colpa che non poteva che sommarsi alle emozioni che mi procurava lo spettacolo.
   Sentivo un grande bisogno di penetrare nei film e ci riuscivo avvicinandomi sempre di più allo schermo per astrarmi dalla sala; evitavo i film in costume, di guerra e western perché mi era difficile identificarmi; per eliminazione non mi restavano che i polizieschi e i film d’amore; contrariamente ai piccoli spettatori della mia età, non mi identificavo con gli eroi « eroici » ma con i personaggi handicappati e più sistematicamente con tutti quelli che si trovavano in colpa. Si capirà perché mi abbia sedotto, all’inizio, l’opera di Alfred Hitchcock interamente consacrata alla paura, e successivamente quella di Jean Renoir tutta rivolta alla comprensione: « Ciò che è terribile su questa terra è che tutti hanno le loro ragioni » (La règle du jeu, 1939). La porta era aperta: ero pronto a ricevere le idee e le immagini di Jean Cocteau, Sacha Guitry, Orson Welles, Marcel Pagnol, Lubitsch, Charlie Chaplin naturalmente e di tutti quelli che senza essere immorali « dubitano della morale degli altri » (Hiroshima mon amour, 1959).



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Da I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1992, pp. 15-16.

lunedì 1 giugno 2015

Adolf Loos







Che cosa vale di più? Un chilo di pietra o un chilo d’oro? Sembra una domanda ridicola. Soltanto al commerciante però. L’artista risponderà: per me tutti i materiali sono ugualmente preziosi.
   La Venere di Milo sarebbe ugualmente preziosa, sia se fosse pietrame – a Paro le strade vengono pavimentate con il marmo pario – sia se fosse d’oro. La Madonna Sistina non varrebbe un soldo di più se Raffaello avesse aggiunto ai colori qualche libbra di oro. Il commerciante che si dovesse preoccupare di poter fondere una Venere in caso di bisogno o di raschiare via la Madonna Sistina, ovviamente considererà il problema da un altro punto di vista.
   L’artista ha una sola ambizione: dominare il materiale in modo che la sua opera risulti indipendente dal valore del materiale di cui è fatta. I nostri architetti però non hanno questa ambizione. Per loro un metro quadrato di muro fatto in granito ha più valore di uno intonacato.
   Il granito però non ha alcun valore di per sé. Si trova nelle campagne e chiunque può andarselo a prendere. Oppure forma interi monti, montagne intere, e non si deve far altro che estrarlo. Viene usato per pavimentare le strade, per lastricare le città. È la pietra più comune, il materiale più ordinario che conosciamo. Eppure vi sono persone che lo considerano il materiale più pregiato.
   Queste persone dicono materiale e intendono lavoro. Forza di lavoro dell’uomo, mestiere e arte. Poiché il granito richiede molto lavoro per estrarlo dalle montagne, molto lavoro per trasportarlo fino al luogo di destinazione, lavoro per dargli la forma giusta, lavoro per dargli un aspetto piacevole mediante la levigatura e la politura. Di fronte a un muro di granito levigato il nostro cuore tremerà in un brivido di rispetto reverenziale. Di fronte al materiale? No, di fronte all’opera dell’uomo.
   Il granito sarebbe quindi più prezioso dell’intonaco? Non è ancor detto. Perché una parete decorata a stucco dalla mano di Michelangelo farà ombra alla più levigata parete di granito. Non soltanto la quantità, ma anche la qualità del lavoro è determinante per il valore di un oggetto.



***


   Esiste in America un tipo di verdura di largo consumo: la si serve in tavola come da noi i cavoli o i fagioli. Si chiama egg-plant, che significa pianta-uovo. Anche da noi è stata recentemente immessa sul mercato con il nome di melanzana. Le nostre massaie avranno certamente già notato al mercato delle primizie questi frutti blu, oblunghi. Ma la richiesta è scarsa nonostante siano a buon mercato. Perché non si sa come cucinarle. Questo frutto va trattato come la patata. Vi spiego ora il modo migliore di prepararlo.
   Si sbuccia il frutto e lo si taglia, se è lungo nel senso della lunghezza, se è rotondo, per il largo, in fette alte quattro millimetri. Poi lo si sala e lo si impana nella farina, nell’uovo e nel pane grattugiato. Infine lo si fa cuocere piuttosto a lungo nel burro come una cotoletta.
   Ho stabilito un accordo con il ristorante vegetariano che si trova nella Spiegelgasse n. 8 (ammezzato) affinché per otto giorni consecutivi, a partire dal 15 ottobre, vi si preparino per colazione queste melanzane nel modo suddetto. Forse qualche marito le assaggerà e ne parlerà a sua moglie. Oppure ci andranno le signore stesse. O anche il gestore di qualche ristorante.



............................................................................................................................................      Da Parole nel vuoto, traduzione di Sonia Gessner, prefazione di Joseph Rykwert, Adelphi Edizioni, Milano 1992, pp. 73-74, 173.

venerdì 1 maggio 2015

Francesco Scarabicchi








1980



                                   in memoria di Giorgio Caproni



Prologo

Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.




L’aiuola
   per Mark Strand


C’è la corona di conchiglie grandi,
una terra mai mossa, quasi legno,
il piccolo oleandro, una panchina
che forse è stata verde,
un gatto rosso addormentato ai bordi,
ossi di pesca e cardi rinsecchiti.

Dei fasti della corte resta niente,
di quell’impero vegetale è il sonno
che tocca la ringhiera arrugginita,
gli scalini, la piccola fontana.
Ogni beltà è sparita come nube
a cui è negato il più lontano cielo.




Roma


Era luce d’ottobre il pomeriggio,
era il sogno sognato che s’avvera,
tu nella stanza che con calma accendi
la mezza sigaretta assaporando
il grigio fumo tra la bocca e gli occhi,
d’osso e cristallo il viso della voce,
nel labirinto di parole esatte,
asciutte come un lino teso al sole.




Epilogo


Dalla porta del tempo passa il mondo,
dai suoi sentieri ignoti, dalle strette
vie degli istanti che non torneranno.
Dov’è che vanno, allora? A chi votati?
E quanto d’ogni umano si cancella?