lunedì 1 dicembre 2014

Albert Camus







   Se si vuol credere a un mio amico, un uomo ha sempre due caratteri, il suo e quello che gli attribuisce la moglie. Sostituiamo moglie con società e capiremo come una formula che uno scrittore collega a tutto il contesto di sensibilità possa essere isolata mediante il commento che se ne dà e presentata al suo autore ogni volta che egli desidera parlare d’altro. La parola è come l’atto: «Avete dato alla luce questo bambino?» «Sì.» «Quindi è vostro figlio.» «Non è così semplice, non è così semplice!» Così, una brutta notte, Nerval si è impiccato due volte, prima per sé, perché era infelice, e poi per la sua leggenda, che aiuta qualcuno a vivere. Nessuno può parlare della vera infelicità, né di certe felicità, e non mi ci proverò io qui. Ma la leggenda si può descrivere e si può immaginare, almeno per un momento, di averla dissipata.
   Uno scrittore scrive in gran parte per esser letto (ammiriamo chi dice il contrario, ma non crediamogli). Da noi tuttavia egli scrive sempre di più per ottenere quella consacrazione finale che consiste nel non essere letto. Infatti, a partire dal momento in cui può fornir materia per un articolo pittoresco sui giornali a grande tiratura, ha tutte le probabilità di esser noto a un numero abbastanza grande di persone che non lo leggeranno mai, perché basterà loro conoscerne il nome e leggere quanto verrà scritto di lui. Ormai sarà conosciuto (e dimenticato) non per quel che è, ma secondo l’immagine che un giornalista frettoloso ne avrà data. Quindi non è più indispensabile scrivere libri per farsi un nome nelle lettere. Basta aver fama d’averne scritto uno di cui abbiano parlato i giornali della sera e sul quale ormai si potrà dormire.



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Da L’enigma in L’estate e altri saggi solari, a cura di Caterina Pastura e Silvio Perrella, Bompiani, Milano 2013.

domenica 2 novembre 2014

François Villon








BALLADE

[Ballade des femmes de Paris]


Quoy qu’on tient belles langagieres
Florentines, Veniciennes,
Assez pour estre messagieres,
Et mesmement les ancïennes;
Mais, soient Lombardes, Rommaines,
Genevoises, a mes perilz,
Pimontoises, Savoisiennes,
Il n’est bon bec que de Paris.

De tre beau parler tiennent chaieres,
Ce dit on, les Neapolitaines,
Et sont tres bonnes caquetieres
Allemandes et Pruciennes;
Soient Grecques, Egipciennes,
De Hongrie ou d’autre pays,
Espaignolles ou Cathelennes,
Il n’est bon bec que de Paris.

Brettes, Suysses, n’y sçavent guieres,
Gasconnes, n’aussi Toulousaines:
De Petit Pont deux harengieres
Les concluront, et les Lorraines,
Engloises et Calaisiennes,
(Ay je beaucoup de lieux compris?)
Picardes de Valenciennes;
Il n’est bon bec que de Paris.

Prince, aux dames Parisiennes
De beau parler donnez le pris;
Quoy qu’on die d’Italiennes,
Il n’est bon bec que de Paris.




BALLATA

[Ballata delle Parigine]


Son regine del linguaggio
Fiorentine, Veneziane,
dell’amor pronte al messaggio,
né da meno son le anziane;
ma Romane sian, Lombarde,
Genovesi (è poi così?),
Piemontesi, Savoiarde,
lingua fina è solo qui.

Del parlar tengono cattedre,
pare, le Napoletane,
le Tedesche son di chiacchere
gran maestre, e le Prussiane;
siano Greche od Egiziane,
Ungheresi (e altre così),
o Spagnole o Catalane,
lingua fina è solo qui.

Non han Brettoni valore,
Tolosane, Guasche, Svizzere:
del Petit Pont due pesciaiole
le farebbero star zitte;
Calesiane e Lorenesi,
Piccarde, Inglesi altresì
(ne ho citati di paesi?);
lingua fina è solo qui.

Prence, il lauro offri alle dame
di Parigi; e sia pur chi
dice brave alle Italiane,
lingua fina è solo qui.



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Da Le Testament (Il Testamento) in Villon, Opere, traduzione di Attilio Carminati e Emma Stojkovic Mazzariol, a cura di Emma Stojkovic Mazzariol, Biblioteca Mondadori, Milano 1981, pp. 160-161.

mercoledì 1 ottobre 2014

Fabio Pusterla




LETTERE DA ZINGONIA



I


Perché non c’è altro non resta
non rimane altro
nell’annullamento
nella foschia nelle brume
non resta che questo pensiero
costante che sibila un nome
una voce riarsa il suo tono
lontano

perché non c’è altro nel mondo
svuotato di senso
soltanto la voce
che chiama

buona
non buona più voce di fiume
Adda imbrigliato aspro
che cozza contro i ponti
i basamenti

periferie tangenziali che anellano
inurbamenti coatti progetti falliti
posteggi d’orrore
l’insonne dormitorio

controviali dove si cammina
tra macerie
con lingue sconosciute si scambia
qualche basico segnale di umanità
qualche sorriso provvisorio
cenni

sempre diretti senza direzione
verso il nome dell’assenza
inoltrandosi  nei parchi
o costeggiando
certe rogge o canali
certe chiuse

verso la parola impossibile
il tramonto di rosso chimico
Dalmine e l’autostrada
vorticosa



II


Cara Lucia ti scrivo da qui
dall’altra riva senza parole
senza grammatica.

Che non so neanche
se puoi ricordarti di me
se sei viva.

Di me non preoccuparti.
Ho attraversato
Zingonia e molti fiumi.

Sopravvivo. Ti penso.
Ti penso sul cammino
e nelle soste brevi,

ti penso quando vedo
dove ci può cacciare fino a dove
ci può cacciare il grugno del potere,

la cosa che ci schiaccia.
Ti penso anche nei fiori, nelle nuvole
e in tutti gli animali che incontro,

quelli più grandi e gli altri, piccolini.
Ti penso nei bambini
e nei vecchi. E ti saluto

da qui, con quel che sai
e anche con altre cose che non sai
e che non sappiamo. Senza

troppe speranze, tuo
per sempre
Renzo Tramaglino.



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Inedito. Ma avviso anche i lettori che di Fabio Pusterla è appena uscito il nuovo libro, Argéman (Marcos y Marcos).

lunedì 1 settembre 2014

Lev Tolstoj








   Nella nostra società l’arte ha raggiunto un tal grado di corruzione che non solo viene considerata buona quando è deteriore, ma si è persino smarrita l’idea di che cosa sia l’arte. Per poter quindi parlare di arte nella nostra società, occorre anzitutto distinguere l’arte autentica da quella contraffatta.
   Il segno che distingue l’arte autentica da quella contraffatta è indubbiamente uno: la comunicatività. Quando un uomo, senza esercitare alcuna azione su se stesso e senza che null’altro intervenga a modificare la sua condizione spirituale, ma solo leggendo, ascoltando e contemplando l’opera di un altro uomo entra in uno stato d’animo che lo unisce a quest’ultimo e a tutti gli altri che come lui recepiscono l’influsso di quest’opera, sicuramente l’opera che ha provocato un tale stato d’animo appartiene all’arte. Per quanto un’opera sia poetica, o riproduca la realtà, o sia ricca di effetti, non può appartenere all’arte se non suscita in un uomo un sentimento tutto particolare di gioia, di unione spirituale con un altro uomo (l’autore) e con gli altri uomini (gli ascoltatori o gli spettatori) che l’abbiano parimenti recepita.
   È vero che questo è un segno interiore. E gli uomini che hanno dimenticato quale sia l’azione che l’arte autentica deve compiere, e che dall’arte si attendono qualcosa di completamente diverso – e di tali uomini la nostra società ne conta un numero enorme – possono pensare che quella sensazione di svago e in un certo modo eccitante ch’essi provano davanti a una contraffazione sia anche una sensazione estetica; e benché sia impossibile dissuadere costoro, così come è impossibile convincere un daltonico che il color verde non è rosso, nondimeno per gli uomini la cui sensibilità artistica non è corrotta né atrofizzata questo segno rimane come una sensazione ben definita che è prodotta dall’arte e si differenzia nettamente da ogni altra.
   La peculiarità principale di questa sensazione consiste nel condurre chi la prova a un tal grado di fusione spirituale con l’artista, per cui è portato a credere d’avere egli stesso, e non altri, prodotto l’opera che ha recepito e a sentire che quanto essa esprime, da lungo tempo egli stesso avrebbe voluto esprimerlo. Un’autentica opera d’arte fa sì che nella coscienza di chi la intende si annulli ogni distacco dall’artista e da quanti altri pervengono alla medesima comprensione. Proprio in questa liberazione dell’individualità dal suo distacco dagli altri uomini, dal suo isolamento, proprio in questa fusione di un’individualità con le altre, consistono la principale peculiarità e la maggior forza d’attrazione dell’arte.
    Se un uomo prova questo sentimento, se gli si comunica lo stato d’animo in cui si trova l’autore, e se sente di fondersi spiritualmente con altri uomini, allora l’opera che ha provocato questo stato d’animo appartiene all’arte; se manca questa comunicativa, se non si verifica questa fusione con l’autore e con le altre persone che intendono l’opera, allora non v’è arte. Né questa comunicatività è soltanto un segno indubbio dell’arte: il grado di comunicatività è altresì l’unica misura del pregio dell’arte.
   Quanto più intensa è la comunicatività, tanto più elevata è l’arte come tale, senza riferimenti al suo contenuto, e ciò indipendentemente dal valore delle sensazioni ch’essa trasmette.
   Tre condizioni determinano la maggiore o minore comunicatività dell’arte: 1) la maggiore o minore originalità del sentimento che viene trasmesso; 2) la maggiore o minore chiarezza con cui questo sentimento si propaga e 3) la sincerità dell’artista, e cioè la maggiore o minore intensità con cui egli stesso prova la sensazione che vuole comunicare.




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Da Che cos’è l’arte? [Ćto takoe iskusstvo?, 1897], Introduzione di Pietro Montani, Traduzione e note di Filippo Frassati, Donzelli, Roma 2010, pp. 173-175. 

Lev Tolstoj




   Se io sono abituato a un determinato genere d’arte esclusiva, e la comprendo, mentre non comprendo un altro genere d’arte ancora più esclusiva, non per questo ho il diritto di concludere che la mia è autentica arte e che l’altra è falsa e deteriore; ma posso concludere soltanto che l’arte, facendosi sempre più esclusiva, è divenuta sempre più incomprensibile per un numero sempre crescente di persone e che in questo suo procedere verso una sempre maggiore inintelligibilità arriverà al punto d’essere capita solo da una ristretta cerchia di eletti, il cui numero andrà sempre diminuendo.
   Non appena l’arte delle classi superiori si è distinta da quella universale, subito è sorta la convinzione che l’arte possa essere tale anche quando riesce incomprensibile alle masse. E non appena è stata ammessa questa tesi, inevitabilmente si è dovuto ammettere che l’arte può essere compresa solo dal più piccolo numero di eletti e, infine, soltanto da un paio di persone o unicamente dall’artista medesimo, che è in ogni caso il miglior amico di se stesso. E così dichiarano apertamente gli artisti d’oggi: «Io creo e mi comprendo, e se qualcuno non mi capisce, tanto peggio per lui».
   L’affermazione che l’arte può essere buona e nel contempo incomprensibile alla grande maggioranza degli uomini è tanto ingiusta e le sue conseguenze sono così funeste, e assieme così diffuse e radicate nella nostra mentalità, che al punto in cui siamo arrivati è impossibile spiegarne in modo soddisfacente tutta l’assurdità.
   Nulla è meno insolito che sentir dire, a proposito di sedicenti opere d’arte, ch’esse sono molto belle, ma molto difficili a capirsi. Noi siamo ormai abituati a sentire questa asserzione; e tuttavia dire che un’opera d’arte è buona, ma incomprensibile, è come dire che una vivanda è buona, ma immangiabile. Agli uomini può non piacere il formaggio guasto, o i pollastri frolli o altre simili pietanze apprezzate dai gastronomi dal gusto pervertito, ma il pane e la frutta sono buoni quando piacciono a tutti. Ciò vale anche per l’arte: se è pervertita, può riuscire incomprensibile, ma se è buona piace a tutti.
   Si dice che le migliori produzioni artistiche non possono, per loro stessa natura, essere comprese dalla maggioranza, e sono accessibili soltanto agli eletti in possesso di un’adeguata preparazione. Ma se la maggioranza non le capisce, allora bisogna spiegargliele, fornirle tutte le cognizioni necessarie alla comprensione. Ma a quanto pare queste cognizioni non esistono ed è impossibile spiegare le opere d’arte, e perciò coloro che sostengono la tesi dell’incapacità della maggioranza a capire la buona produzione artistica non forniscono spiegazioni, ma dicono che per capire è necessario leggere, o guardare, o ascoltare più e più volte quelle opere. Ma questo significa abituare la gente a quel tipo d’arte, e non chiarire le idee. Ed è possibile abituarsi a qualunque cosa, anche alle peggiori. Come la gente s’abitua al formaggio guasto, alla vodka, al tabacco, all’oppio, così può abituarsi all’arte deteriore: ed è proprio quel che succede.
   Inoltre, è impossibile affermare che la maggioranza degli uomini non ha buon gusto nel valutare i più elevati prodotti dell’arte. La maggioranza ha sempre compreso e comprende ciò che anche noi consideriamo altissime manifestazioni d’arte: le narrazioni artisticamente semplici della bibbia, le parabole del vangelo, le favole, le leggende e le canzoni popolari sono comprese da tutti. Perché dunque la maggioranza avrebbe smarrito d’un tratto la capacità di comprendere la grandezza della nostra arte?
   Di un’orazione si può anche dire che è bellissima, ma incomprensibile a coloro che non conoscono la lingua in cui viene pronunciata. Un discorso pronunciato in cinese può essere magnifico, e riuscirmi tuttavia incomprensibile se io non so il cinese; ma un’opera d’arte si distingue da ogni altra attività spirituale proprio perché il suo linguaggio è comprensibile per tutti, perché trascina tutti senza distinzione. Le lacrime o le risa di un cinese mi contagiano esattamente come quelle d’un russo: e ciò vale per la pittura, per la musica, come anche per le opere di poesia se sono tradotte in una lingua che io capisco.
[…]
E pertanto, quando l’arte non riesce a commuovere, è impossibile sostenere che ciò dipende dall’incomprensione dello spettatore o dell’ascoltatore, ma si può e si deve concludere solamente che ci troviamo in presenza di un’arte deteriore, o di qualcosa che non è affatto arte.




............................................................................................................................................ Da Che cos’è l’arte? [Ćto takoe iskusstvo?, 1897], Introduzione di Pietro Montani, Traduzione e note di Filippo Frassati, Donzelli, Roma 2010, pp. 116-119.

sabato 2 agosto 2014

Luigi Di Ruscio




                                                                       Lido di Fermo.




Avevo cinque anni
una vecchia mi fece capire
perché nessuno mi tenesse sui ginocchi
mia nonna che mi teneva per mano non mi difese
né per consolarmi mi strinse la mano
per questo sono andato solo sui fiumi
l'acqua non mi è servita per specchiarmi
ritornavo a casa per non dormire sul greto
a quell'età la fame fa essere pazzi
fa divenire presto adulti
e tutte le erbe che le capre hanno brucato
ho imparato a cogliere
ho preso il gusto del sapore amaro
questo è stato il mio latte
e perché rubavo con calma avevo i frutti più belli
andavo solo per non essere scoperto
al mio odore i cani non hanno abbaiato
e nessuno può condannarmi
se presto mi sono adoperato a negare iddio
sulle mura che l'acqua gonfiava
avevo visto solo le immagini di carta
ho scoperto i libri nel mucchio dello stracciaio
ancora oggi mi incanto a guardarli
cercavo tra le carte la pagina scritta
ho gridato e mi hanno guardato come essere vivo
come qualcosa di più di un viaggiatore
sono entrato nelle strade
quale bambino non sogna di vestire da uomo
io lo sono stato presto
ho trovato ancora con i pantaloncini corti
una donna che è rimasta contenta
perché gli uomini gli facevano male
ho volato sui pensieri
sognando per ogni foglia che ho visto cadere
erano le ore senza riposo
le chiese servivano per rinfrescarmi
giravo assetato delle donne
che presto con soldi rubati ho pagato.
Ora sento l'amore delle donne che sfiora il viso di fiati
stringo i capelli grassi
e le mie labbra da negro mi portano fortuna
gli occhi che non sanno riposare.

[Non possiamo abituarci a morire, Schwarz, Milano 1953]




un orologio centesimale timbra nel cartellino delle presenze
ed io presente metto in moto tutti i motori
iddio deve girare perenne in perennità primo di tutti i motori
satana nel centro dell'immobile col culo incastrato e salvo dalla nausea
timbro sulle scorze evolute del mondo la lingua batte sui denti sani rimasti
finire e ricominciare sino a nausea totale sulla testa del chiodo battere
non capovolgere l'ombrello il calice qualsiasi cosa accada
accettare tutto con tutta la cassa e risuscita tra i cartoni ondulati
tenere alta la cassa che incassa gli universi fragili
tutto deve essere incassato avvolto c'è pericolo dello sfaldamento generale
il richiamo intontisce abbacina essere nel pieno dei richiami è la condizione
ad ogni porta la nuova sino all'ultimo sprofondo
abbacinata dai pezzetti di vetro colorati e gli sparano addosso
nelle latrine disegnate donne con spacchi enormi pronti all'ingoiamento
dentro la membrana morbidissima esce fuori e cade nell'organismo sociale
timbrare e ricomincia la fatica di dover respirare finirà che mi arroteranno
qualsiasi cosa tocco mi sembra importante mi ci aggrappo e così non mi                arrotano
io metallizzandomi e fossilizzandomi diventerò completamente incommestibile
l'uomo è misurabile a tempi il mio è veloce e vi colpisce in pieno
tentare l'ultima apertura scavalcare nell'illimitato sino alla nausea totale
perfino il ciottolo buttato nell'acqua metteva in moto la nausea
in questi punti sempre più veloci del mondo ricominciare sino a nausea totale
di questo inferno accettare la parte di diavolo ancora più velocemente correre
alla fine verrà selezionato un uomo del tutto adatto
la salvezza non è possibile

[Apprendistati, Bagaloni, Ancona 1978]




mettete nella scansione tutta la vostra rabbia
dire con feroce calma
ogni verso che sono riuscito a scrivere
mettere un baratro tra me e loro
oppure leggere come se l’utopia
fosse rimasta solo nei miei versi
fare atti sconci verso il pubblico tutto
ad ogni modo divertitevi
la poesia è come il sangue universale
possiamo darlo a tutti
però ogni altro sangue
ci mette in pericolo estremo

[L’ultima raccolta, Manni, Lecce 2002]




tutto ad un tratto ho capito
che Iddio non è altro
che l’idealizzazione del padrone
anche i cani hanno un padrone
e il credere in Dio
non ci distinguerebbe dai cani
finiti i padroni
scompare anche Iddio dietro la curva
e ci distingueremo dai cani

[L’Iddio ridente, Zona, Arezzo 2008]