venerdì 29 marzo 2013

Benedetto Croce




XV. L’avversione alla letteratura contemporanea

   In verità, quando si guarda allo spettacolo della letteratura viva, o meglio dei fisicamente viventi della letteratura, come anche la chiamano, militante, si prova un frequente senso di repugnanza e un rimprovero che risuona dentro noi stessi a non attardarci a contemplarlo, ché sarebbe « bassa voglia ». Scrittori mediocrissimi, « anime sciocche », vi si pavoneggiano tra le lodi o le esaltazioni di altri bramosi di porsi al loro fianco e rizzarsi bene in vista. Discussioni a perdita di fiato vi s’intessono sull’arte e sui suoi fini e i suoi mezzi, e delineazioni di programmi e di scuole, che sono prove di lamentevole ignoranza e di volgarità nei concetti. Le rare opere di pregio e i rari ingegni nati all’arte sono messi alla pari degli altri che non hanno nessun merito e nessun vigore, quando addirittura non vengano posposti: il demimonde, la società equivoca, soverchia le monde, il vero mondo, cioè la piccola società eletta. Un tono generale di pettegolezzo e di intrigo regna in quella cerchia, che dovrebbe essere di poesia e di letteratura; l’« arrivismo » vi si caccia dentro, disertando la cerchia che meglio gli converrebbe degli affari e dei lucri. È ben comprensibile il disgusto che gli amatori veraci della poesia e della letteratura provano e che li fa rifuggire da quei ridotti e restare o tornare in fretta colà dove stanno eretti i templa serena. Molti, segnatamente, come è naturale, giovani sono affascinati e presi da quel bollore di vita loro vicino; ma i più intelligenti, col riflettere, con lo studiare, col maturarsi alla serietà del fare, conosciutolo per quello che è, lo ripongono tra le loro esperienze e passano a più degna operosità, poetica o non poetica, letteraria o non letteraria che sia.


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Brano tratto dal libro di Croce già segnalato nel precedente post (pp. 302-303).

giovedì 21 marzo 2013

Benedetto Croce











I. Ancora della lettura poetica di Dante


Ma aggiungerò che non mi pare che si debba nascondere che l’assunto del viaggio oltremondano e i modi in cui Dante fu astretto a immaginarlo, facciano sorgere talora il sentimento di difficoltà e contradizioni in cui urta e di tentativi e sforzi di superarle, che non tornano a pieno persuasivi, e poiché egli vi si ostina o si cava come può d’imbarazzo, provochino nei lettori l’accennarsi di un lieve sorriso. Come mai (si pensa, ma forse non piace dire) Dante osò dannare all’inferno, inviare ai castighi educativi del purgatorio o collocare nel paradiso, creature umane, storicamente individuate, con sentenze che solo Dio poteva pronunziare, egli che pur sapeva, e faceva rammentare con gravi parole da Manfredi, che non vi ha giudizî sulla vita vissuta dai singoli individui che possano condurre con sicurezza a conclusioni di questa sorta, perché, quando ogni altro manchi, resta un momento ultimo, quello della morte, in cui la creatura può rivolgersi direttamente al Creatore e a lui aprirsi e lui pregare e da lui ottenere perdono? La Chiesa stessa cattolica non credo che abbia mai negato o limitato questo diritto dell’uomo, che è insieme diritto di Dio: ancorché gli ecclesiastici abbiano talvolta cacciato nell’inferno quelli che in vita intaccarono o calpestarono loro interessi politici o economici, come usarono, per esempio, con Carlo Martello, nonostante che avesse con le vittorie di Tours e di Narbonne impedito all’invasione e alla fede islamitica di allargarsi in Europa[1], e ancorché, per un altro verso, abbiano sbagliato in certe loro santificazioni e debbano sempre sospettare che qualcuno dei loro santi possa ripetere a loro il gesto di quel dottore medievale santificato in Parigi, che si levò dal cataletto per gridare agli astanti nella chiesa di non affliggerlo con le loro orazioni, perché egli « iusto iudicio Dei » stava all’inferno. E Dante assunse come cosa a lui lecita, con una sorta di disinvoltura o di candore, le parti di Dio, unicamente perché il suo pensiero etico e religioso e la varia e ricca poesia che in lui tumultuava volle incanalare nella forma letteraria della visione di un altro mondo, che lo portava bensí a decretare dannati taluni, perfino quando ancora vivevano nel mondo e mangiavano e bevevano e dormivano e vestivano panni e perciò si potevano pentire e conciliare con Dio, ma con ciò si dava una agevolezza che altrimenti gli sarebbe mancata. Ma né egli circondò i suoi dannati di sacro orrore, ché anzi s’intrattenne con loro placidamente come se stessero non in obbrobriose e atroci camere di tortura, ma in luoghi nei quali potessero attendere a legare conversazioni sulle cose del mondo, passionalmente e anche nobilmente da loro risentite, e tributò a questi suoi personaggi affetto e ammirazione; né, d’altro lato, quando l’animo così gli diceva, si restrinse sempre a lasciarli ai più che bastevoli castighi che di continuo pativano, perché, come si sa, gioí a volte dei loro patimenti, incitò a tormentarli con maggiore crudeltà, stese egli stesso la mano per afferrare per la cuticagna e strappare i capelli a Bocca degli Abati, che non chiedeva se non di essere dimenticato sulla terra. È naturale che innanzi a questo comportamento, al quale era ora costretto ora incoraggiato dalla forma letteraria da lui adoprata e che gli permetteva finanche lo sfogo delle sue private vendette e capricci, le labbra del lettore si muovano qualche volta « un poco a riso », come a lui era avvenuto nell’osservare gli atti e le parole di Belacqua, e che il lettore o il critico esca in qualche parola conforme a questo solletico interiore; perché grande è la riverenza che Dante ispira, ma essa non richiede che gli si stia attorno come il chierichetto che serve la messa: atteggiamento che meglio conveniva ai « dantisti », pei quali il principale e l’essenziale era il romanzo teologico e il secondario la poesia, laddove per noi, lettori di poesia, tale rapporto, nella sua opera composita, si presenta invertito. Quel sorriso nasce in noi altrettanto spontaneo, quanto l’elevazione alla poesia che Dante viene creando, e bisogna lasciarlo passare come tutto ciò che è sincero ed è vero.
   Tanto più che io ho un sospetto dentro di me e sulle labbra una domanda, che vorrei discretamente muovere: se si sia proprio sicuri che Dante a certe sue trovate sull’altro mondo non rischiarasse e allietasse sé stesso con l’ironia. Perché no? Perché era Dante (si risponderà). Ma era Dante come l’hanno costruito nella loro immaginazione gli ammiratori e panegiristi; e certamente nella realtà egli fu più vario e più ricco di questo suo ritratto.






[1] Si vedano altri casi di tali pie condanne politiche all’inferno in D’ANCONA, I precursori di Dante (Firenze, Sansoni, 1874), pp. 70-82.


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In Letture di poeti, Editori Laterza, Bari 1966, pp. 20-22. Nelle «Opere di Benedetto Croce», Scritti di storia letteraria e politica, XXXIX, prima edizione 1950.

giovedì 7 marzo 2013

Paul Celan





Lettera a Hans Bender


 Caro Hans Bender,
   La ringrazio per la Sua lettera del 15 maggio e per l’amichevole invito a collaborare alla Sua antologia Il mio poema è il mio coltello.
   Ricordo di averLe detto a suo tempo che il poeta, non appena il poema sia realmente compiuto, viene di nuovo esentato dalla sua iniziale complicità. Oggi cercherei di formulare in altro modo questo convincimento, ovvero di differenziarlo; ma in sostanza continuo sempre ad avere questa – vecchia – opinione. Certo, esiste anche quello che oggi tanto volentieri e sbrigativamente si designa come artigianato. Senonché – mi permetta codesta abbreviazione del mio pensiero e della mia esperienza – l’artigianato, come in genere la pulizia nel mestiere, è presupposto di qualsiasi poesia. Questo artigianato certissimamente non sta su un terreno d’oro[1] – e chissà poi se ha un qualunque terreno. Esso ha i suoi baratri e le sue profondità – più d’uno (ahimè, io non sono tra questi) ha perfino un nome per tutto ciò.
   Un manufatto – è questione di mani. E quelle mani poi appartengono soltanto a un uomo, cioè a un’unica mortale creatura, la quale con la voce e con il suo silenzio cerca di aprirsi una strada.
   Solo mani veraci scrivono poesie veraci. Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema.
   E non ci si venga adesso a parlare di «poiein» e cose simili. Ciò aveva, con tutte le sue attinenze vicine e lontane, tutt’altro significato che nel contesto attuale.
   Certo, esistono modi per esercitarsi – in senso spirituale, caro Hans Bender! E a margine, a ogni angolo di strada della lirica, c’è questo andar sperimentando con il cosiddetto materiale verbale. Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino.
    «Come si fanno le poesie?»
   Per qualche tempo, anni addietro, io ho potuto vedere e più tardi osservare attentamente da una certa distanza come il «fare» diventi, prima, fattura, e un po’ alla volta fattucchiera. Già, esiste anche questo, Lei forse lo sa. – Non succede per caso.
   Viviamo sotto cieli oscuri, e – di uomini ce n’è pochi. Proprio per questo ci sono anche così poche poesie. Le speranze che ho ancora non sono grandi; cerco di tenermi in serbo quanto mi è rimasto.
   Con tutti i migliori auguri per Lei e il Suo lavoro
   Suo
Paul Celan

Parigi, 18 maggio 1960.





[1] La frase risulta comprensibile solo se si tiene presente un antico proverbio secondo cui un buon mestiere, una volta acquisito, è sempre redditizio. Sebastian Franck, nei suoi Proverbi pubblicati a Francoforte nel 1560, lo cita nella versione attribuita all’umanista Johannes Agricola: «Ein Handwerk hat einen güldin Boden» [Un artigianato ha un terreno d’oro].


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Da La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 57-58.