mercoledì 28 novembre 2012

Francesco Scarabicchi









Una città è un destino


Una città è un destino e non tanto perché è il luogo in cui si viene al mondo, figlio, come tutto, della casualità. Lo è nell’istante in cui si prende coscienza d’essa, nel bene come nel male, nel frangente in cui, per la prima volta, la si vede e la si riconosce, la si nomina, la si sente come un odore o una voce, intensa, profonda, acuta come il dolore, terribile come la gioia, precaria e caduca, figlia del tempo, votata all’eternità dell’umano, ad ogni qui e ora che ne scandisce cronaca e storia. Può essere, una città di uomini e di donne, chiusa nell’insopportabile rete delle classifiche, dei sondaggi, dei cataloghi? Può, quel destino, darsi in virtù di un “posto” in graduatoria? Mi chiedo se sia serio ed etico comporre tali elenchi dimenticando quanto respiro e quanto sangue ci sono voluti per giungere fino a noi, nel buio delle epoche, nella loro luce, lungo i crinali delle ferite, delle distruzioni, delle cancellazioni, delle vittime senza nome che pure sono state Ancona durante il loro ignoto esistere. Il rischio è che si finisca di fare le cose perché una classifica, un sondaggio, un catalogo lo riportino, lo segnino, lo indichino in questa ottusa, quotidiana, virtuale competizione che ci ha tolto, via via, il privilegio di essere un popolo e ci ha fatti “gente”, consumatori, turisti, telespettatori, fedeli sudditi di un regno dell’opinione, del parere, dell’indagine merceologica, del questionario. Vivo ad Ancona un po’ isolato, città di feroci solitudini. La mia adolescenza e giovinezza sono state incise da quel gelo, da un’assenza di speranza senza remissione alcuna. Paradossalmente, è stata la città in cui, a fatica, da distanze minerali, mi è venuta incontro la poesia, la forma della solitudine del senso, osso e cristallo, selce, scoglio, pietra, nella sua assolutezza, come le tessere romaniche di Santa Maria della Piazza, come il silenzio muto di Piazza del Plebiscito, se la visiti di notte, a luna piena, seduto sulle scale, alle spalle l’ombra pesante della statua di Clemente XII. Poesia come destino e quindi città del proprio dirsi al mondo e nel mondo, testimone d’un passaggio. Una parte della mia educazione sentimentale è avvenuta nei cinema che c’erano, dal “Fiammetta” di Via Damiano Chiesa all’ ”Alhambra” di Corso Amendola, dall’ “Astra” di Via Zappata, al “Goldoni” di Via San Martino, dal “Marchetti” di Corso Stamina al “Lux” di Posatora, lasciando perdere il “Metropolitan” di Corso Garibaldi, lussuoso e costoso, o, più tardi, il “Coppi” di Corso Carlo Alberto dove c’era e c’è  l’ “Italia”. Se avevo soldi che risparmiavo, riuscivo a vederne anche due nel pomeriggio, fino all’ora di cena. Negli anni Trenta due poeti, fra gli altri, l’hanno visitata e scritta: Sandro Penna (“Sbarco ad Ancona” ne Il viaggiatore insonne) e Alfonso Gatto (“Un’alba al duomo d’Ancona” ne La storia delle vittime). Una città bianca e nera, la stessa o quasi che viaggerà Visconti in Ossessione prima che scompaia del tutto, maceria di macerie. Sono nato nel 1951 e quell’Ancona non la saprò mai. Me la raccontava mia madre, ogni giorno salendo alla Cattedrale, nelle soste lungo Via Fanti, o in Piazzetta Sant’Anna, dove era nata e dove aveva trascorso l’intera gioventù. Un’Ancona della memoria, memoria di memorie. Il presente, a me che l’attraverso di rado, che scendo lungo il Viale (al quale, più di vent’anni fa, ho dedicato il titolo di un mio libro) quando un po’ si spopola o quando accompagno mio figlio Giacomo in centro o scendo al porto delle navi, è senza dubbio un tempo più aperto. Sono accaduti eventi che per decenni abbiamo atteso. Penso ai lavori che hanno, in ogni caso, mutato il paesaggio urbano, gli spazi, le prospettive, gli sguardi, quel fermento di cantieri, trincee che si aprono e si chiudono in ogni via, opere in corso, transenne, scavi, ponteggi. Si ha quasi l’impressione, da un osservatorio obliquo come il mio, che certi ormeggi si siano sciolti, certi cancelli aperti e sia iniziato un tempo diverso per la città. Eppure, rasentando le case “cautamente”, come direbbe Camillo Sbarbaro, “io sento dietro le pareti sorde / le generazioni respirare”. Ad esse va risposto, nel segno di una città civile, oltre le classifiche, lontano dai luoghi comuni, raccogliendo quel respiro, quella piccola musica prima che si spenga come le braci virtuali di un televisore, delusa, umiliata e dimenticata, nel falso di un’attenzione che non può durare solo la notte di San Silvestro, a riva di nessun millennio e nessun secolo, povera provincia che seguita a mimare la verità degli schermi dimenticando gli anni e i giorni, la faticosa, tenace educazione che fa d’ognuno l’irripetibile astro nel destino del mondo.


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Inedito.

martedì 27 novembre 2012

Lucio Anneo Seneca








IV.   Possiamo accusare a lungo il destino, ma non possiamo mutarlo: rimane fisso e inesorabile. Non lo muove nessuna invettiva, nessun pianto, nessun motivo: non risparmia nessuno, non perdona. Risparmiamo quindi le lacrime che non giovano a nulla: è più facile che un tale dolore ci accosti a loro che li riporti a noi. E se ci tormenta senza giovarci, bisogna rifiutarlo dal primo istante e tenere l’animo lontano dalle consolazioni illusorie e dalla malsana brama di soffrire. [2] Perché, se la ragione non metterà fine alle nostre lacrime, non la metterà certo la fortuna. Orsù, guarda tutti i mortali che ti stanno attorno: dovunque c’è abbondante e continua messe di afflizione. Uno è spinto al quotidiano lavoro dalla povertà faticosa, un altro è agitato dall’ambizione mai soddisfatta: uno teme la ricchezza che aveva desiderato ed è vittima dei suoi voti: uno è tormentato dalla solitudine, uno dal favore che gode, un altro dalla folla che gli assedia il vestibolo: costui si duole d’avere figli, quello d’averli perduti. Ci mancheranno le lacrime prima che le occasioni di versarle. [3] Non vedi che genere di vita ci ha riservato la natura, quando ha stabilito che entrassimo nell’esistenza piangendo? È questo il primo atto con cui veniamo al mondo: ad esso risponde concorde la serie degli anni successivi. Così passiamo la vita e perciò dobbiamo compiere con misura un atto che ci si impone di frequente e, considerando le tante cose dolorose che di dietro ci incalzano, dobbiamo, se non proprio porre un termine alle lacrime, per lo meno, tenerle in riserva. Di niente s’ha da essere avari più che di queste, il cui uso è tanto comune.


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Dalla Consolatoria a Polibio, traduzione di Pino Zanni Ulisse, in I dialoghi a cura di Renato Laurenti, Edizione CDE, Milano 1978.

giovedì 22 novembre 2012

Camillo Sbarbaro






Vi sono parole che i vocabolari dànno per equivalenti e ch’io non confonderei; non direi mai musco per muschio, visco per vischio… Si eviterebbero ambiguità e, s’anche di poco, la lingua si arricchirebbe. Così la spuma non è la schiuma. La nuvola è leggera, un fiocco di bambagia; la nube, il suono cupo lo dice, è plumbea, minaccia temporale. La sottana è greve, tetra, è quella del prete, dell’ava; mentre la gonna è festosa, è una corolla capovolta…
   Pur minima, la diversità di suono distingue al mio orecchio le parole nel significato; arrivo a separare cumulo dal cumolo che nelle giornate calde avanza in cielo maestoso…
Scrittore, lavorai sempre a intermittenza; senza provare nelle lunghe pause velleità o rimpianti di sorta. Di non avvertire alcuna sollecitazione a scrivere, accettavo con la stessa passività con cui, avvertendola, vi avevo ubbidito. Non mi misi mai di proposito davanti a un foglio bianco; per aver pubblicato, non sentii mai d’aver contratto impegni, neppure con me stesso. Lavorai non è quindi la parola giusta; se la frase non si prestasse a interpretazioni metafisiche, direi che scrissi sempre sotto dettatura.
Ci sono fatti nella mia vita che non so più se siano stati perché li ho resi in parole e quindi, come realtà, bruciati. Quando una pagina mi accontenta, cessa di appartenermi – staccata al punto che posso senza rossore lodarla.
Capita che quello che scrivo mi prenda la mano, acquisti mio malgrado un’andatura cantante. La parola s’insedia da sé nello schema d’un verso; impossibile sloggiarla, spezzare quel ritmo gratuito. È il campanello d’allarme: non c’è che alzarsi e uscire.
Se il tuo dovere è in una il tuo piacere, quale altra felicità cerchi su questa terra?
Anche della mia lingua ho una conoscenza approssimativa. Tante parole le evito, malsicuro del loro significato; e se non le cerco nei dizionari, non è solo che dei dizionari diffido, ma che una parola non assimilata in tanti anni, non divenuta carne e sangue, mi saprebbe sempre di accatto.
Laurea è dispensa da imparare: il pezzo di carta su cui ci si siede per difendere l’alfine acquisito diritto all’ignoranza.

Ministro della Pubblica Istruzione, mi scalzerei il posto col primo provvedimento: abolirei le scuole. L’istruzione tornerebbe a essere quello che è: il privilegio di chi lo merita. Il quale non avrà bisogno di insegnanti: imparerà da sé – che è il solo modo di imparare.
Più facile scrivere che cancellare; più che in ciò che riesce a dire, il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere.
Condizione per far grandi cose, mirare oltre. Dante si sarebbe addossato la soma della Commedia se avesse creduto che tutto quel che facciamo è fine a sé?
Controcorrente, in acqua limpida: la divisa della trota, la nostra.


............................................................................................................................................Da Fuochi fatui, in L’opera in versi e in prosa a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, Garzanti, Milano 1985, pp. 423, 427, 437, 440, 441, 442, 456, 480, 482, 486.

domenica 18 novembre 2012

Leonardo Rossi e Paola Marongiu



   Per adeguarsi alla realtà che cambia, il linguaggio deve poi rinnovarsi, creando dei neologismi. Non bisogna confondere però il neologismo con l’occasionalismo, parola coniata ad hoc per determinati eventi e che gode di una certa fortuna per qualche mese o per qualche anno, ma che poi cade dimenticata insieme all’evento che le diede origine.
   Di occasionalismi abbondano le cronache politiche. Tipico caso è il celodurismo che i giornalisti hanno ricavato da uno slogan dell’onorevole Bossi («La Lega ce l’ha duro»), parola onnipresente nelle cronache politiche del 1993-1994, ma oggi praticamente morta. È fin troppo facile, sfogliando un quotidiano, imbattersi in qualche occasionalismo, specie se basato sui nomi dei politici: berlusclone, tarekkato (gioco di parole col nome di Tarek Aziz, ex ministro degli esteri dell’Iraq di Saddam Hussein), donna Lottizia (incrocio tra il nome di Letizia Moratti e lottizzare), mattarellum (“sistema elettorale maggioritario col correttivo di una quota proporzionale”, così chiamato perché proposto da Sergio Mattarella), rutellismo, veltronizzare, ecc.
   Dimostrando apprezzabile lungimiranza, oggi la maggior parte dei dizionari dell’uso è molto prudente nel registrare gli occasionalismi, negando così a parole tanto effimere la patente di stabilità e di ufficialità che un dizionario può dare. Al contrario, nel passato furono frettolosamente inserite nei dizionari occasionalismi come le parole di balli alla moda – lo shimmy (1921) o il black-bottom (anni Trenta) –, che oggi nessuno più conosce e che appesantiscono inutilmente i dizionari dell’uso.
   Buona tenuta nel tempo stanno mostrando invece la parola buonismo (1995), ormai inserita in Devoto-Oli, GRADIT, Zingarelli 1998 e Sabatini-Coletti (2003); e la voce dialettale napoletana inciucio () nel significato di “compromesso poco trasparente, accordo pasticciato” (1995), accezione registrata da Devoto-Oli, GRADIT, Zingarelli 1998 e DISC (1997). Più difficile pronosticare le sorti di black bloc “appartenenti a un gruppo di contestatori che pratica la violenza e la devastazione” (voce diffusa durante gli scontri che accompagnarono il G8 di Genova, nel luglio 2001), euroconvertitore, sempre meno utile ad avvenuto passaggio all’euro, papamobile “particolare autoveicolo costruito per favorire gli spostamenti dell’anziano Giovanni Paolo II nelle visite”, peshmerga “guerrigliero curdo” (2003, durante il conflitto iracheno), tapirata “azione maldestra, sconsiderata, tanto da meritare il ‘tapiro d’oro’, premio satirico assegnato dalla redazione della trasmissione Striscia la notizia”.
   È paradossalmente più difficile fare modernariato che antiquariato. Mentre per le parole letterarie e per le fasi più antiche della nostra lingua lo studioso dispone di strumenti di indagine ormai collaudati e di una solida tradizione di studi, nell’insidioso mare dei neologismi e degli occasionalismi della lingua comune del presente e del recentissimo passato bisogna spesso navigare a vista.


............................................................................................................................................L. Rossi e P. Marongiu, Breve storia della lingua italiana per parole, Le Monnier Università / Officina linguistica, Collana diretta da Luca Serianni, Firenze 2005, pp. 21-22.

5 finestre sul Magazzino Parallelo







(fotografie g. z.)


Centro culturale “Magazzino Parallelo” in via Genova, 70 – Cesena

sabato 17 novembre 2012

Fabio Pusterla



(foto Nina Pusterla)




POSTO DI FRONTIERA


Un tempo era tutto più difficile,
passare al primo colpo un miraggio:
maglie chiuse o ganasce,
una paura quotidiana, a suo modo feroce:
nessuna nave pinta da buon vento
(anzi, a un’altra dogana, finita chissà come
nella canicola di un’assordata pianura,
un maresciallo spiegava all’apprendista: «Alla voce
capitano della nave tu non devi scrivere
nulla, perché qui il mare non ci sta»), nessuna
reciproca cortesia.

Adesso forse mi vedono negli occhi
qualcosa di più riconoscibile:
l’usura, o un’ombra dietro,
una stanchezza quasi comune,
un barlume d’armonia. In fondo,
da quanti anni ci vediamo, loro immobili
nei gesti rituali, nelle formule,
io con il solito mezzo sorriso sulla faccia
e  l’aria rassegnata,
che aspetto il mio turno allo sbocco
del tunnel?  Poi, a volte, fanno domande: se sono
un maestro, un architetto, un centometrista abbastanza
celebre tanti anni fa, se sono parente
di una ragazza forte nel salto in lungo, se vengo
da questo o dal quel paese,
se mi ricordo del tale. Chiedono queste cose
illuminati di tenue speranza come se
dalle risposte qualcosa dipendesse,
di importante. Mi dispiace
deluderli ogni volta: insegnante, di un ceppo
marginale, comasco, e no,
nessun rapporto con l’atletica, purtroppo.

Ma in questi giorni uno, con gli occhi tristi, inatteso mi ha chiesto
se io ero lo scrittore Giuseppe Pontiggia, quello che ha scritto
Nati due volte. «No - ho dovuto rispondere, sorpreso -
e poi è morto da qualche anno, mi dispiace;
però l’ho conosciuto, ed era bravo e gentile.  L’avevo
una volta persino invitato a Bellinzona e lo ricordo,
come scendeva dal treno con un cappotto grigio
o cammello e salutava con calma». «Ma se non è lui, però
è almeno uno scrittore anche lei, no? Me lo diceva
un collega, e anche che il suo nome comincia con la P,
e io ho detto Pontiggia perché
avevo in mente quel libro così bello»
- insiste l’occhio triste sorprendente
con una voce simpatica.
Mi spiega che il mestiere
è di quelli aspri e duri: arrivi a casa
come svuotato, perso;
ma quando può lui legge
volentieri, saggi e romanzi
quello che lo ispira.

Ora però dovrei dirgli che invece
purtroppo io sono uno che annota
principalmente dei versi,
cose strane che incontro sul cammino,
affioramenti di voce che non so
quasi mai dove portino.
Ma lui  vuole sapere piuttosto
se, dopo, quando smonta, entrando in google
salterà fuori qualcosa su di me.
«Magari sì - gli dico -
magari», e ci stringiamo la mano
per un attimo fraterni nella rete. 



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Inedito.