martedì 17 gennaio 2012

Ai lettori




Renato Serra




Due parole intorno a questa rivista, fatta in casa, da uno che ama molto leggere, qualche volta scrivere, e che ora sente il bisogno non dico di una vacanza, quanto piuttosto di una pausa di riflessione, anche perché ritengo di aver evidenziato più che a sufficienza i temi e le problematiche ad essi legate che intendevo proporre alla vostra attenzione.
Problematiche e temi che, è chiaro, potrebbero essere indagati a non finire, ma allora avrei dovuto tradire i limiti che mi ero imposto, appunto quelli della mia piccola libreria casalinga, e chiedere contributi non soltanto ai pochi amici che ho, contravvenendo così alla frase-guida di “Finestre”, laddove Renato Serra parla di «rivista persona, che esprime solo e sempre un uomo; o un gruppo, una famiglia di spiriti ben definita.»
Malgrado tali restrizioni, nell’articolo d’apertura del 17 agosto 2011 mi auguravo che la rivista, «legata essenzialmente alla poesia», potesse «rivelarsi di pubblica utilità», ed è proprio il concetto di pubblica utilità, vago finché si vuole e soggettivo finché si vuole, che mi ha convinto ad accettare la sfida.
A conferma che non era una convinzione poi così infondata, mi basterà riferire quel che dicono i registri del blog, cioè che dal 17 agosto 2011 a oggi (17 gennaio 2012), le “finestre” sono state “visitate” circa 5.400 volte, e non solo dall’Italia, anche dagli Stati Uniti, dalla Russia, dall’Ucraina, dalla Germania, dalla Polonia, dalla Svizzera, dalla Francia, dal Belgio, dal Regno Unito ecc.  
Grazie a Internet, certo, ma innanzi tutto, gentili lettori, grazie a voi.
Arrivederci.
                                                                                
                                                                               g. z.       
   




domenica 1 gennaio 2012

g. z.




Ferruccio Benzoni e Giovanni Raboni, Cesena, 1995 (foto g. z.)




Appunti per Lugano
II

Il mio curriculum scolastico si chiude con un diploma di Perito in Telecomunicazioni conseguito nel 1978 presso l’Istituto Tecnico Industriale di Cesena con un insperato quarantasei sessantesimi. Avevo allora 19 anni e nessuna voglia di continuare a studiare; dal momento poi che mio padre era arrivato alla Quinta Elementare e mia madre non aveva superato la Prima, potevano già ritenersi soddisfatti. A quei tempi, in effetti, per chi come me proveniva da famiglie contadine passate al proletariato, ossia per la maggioranza dei miei coetanei, un diploma simile rappresentava già il massimo delle aspettative. Non a caso, di tutti i miei compagni solo un paio avevano ambizioni universitarie, va da sé gli unici, se ben ricordo, che provenivano da famiglie benestanti.

Peraltro, devo a quell’attestato se dopo un anno come operaio in uno zincaturificio e alcuni mesi passati a verniciare infissi ho trovato il mestiere che faceva per me e che tuttora svolgo: magazziniere in un’azienda di materiale elettrico.

Del periodo scolastico ricordo con piacere le ore dei temi in classe e poco altro. Tant’è che all’esame di stato, tra quelli proposti nel 1978, scelsi il tema d’indirizzo letterario, che chiedeva di parlare di Ungaretti, Montale, Quasimodo.

Quindi, ho continuato a studiare per mio conto, finalmente senza scadenze, quell’unica materia, l’italiano, verso la quale mi sentivo davvero attratto fin dall’abbecedario: ovviamente di sera, nei giorni festivi, durante le ferie e nei ritagli di tempo. In una parola, sono stato quel che si suol definire, sbrigativamente, un autodidatta, poiché comunque non andrebbe dimenticato che quella dell’autodidatta, prima o dopo, diventa la condizione comune a tutti gli artisti, al di là del tempo “libero” di cui ognuno dispone. Come ben diceva Montale: «Non ci sono scorciatoie, né per la produzione né per l’appercezione dell’arte; non possono esistere né manuali né cattedre né corsi accelerati che permettano di apprendere ciò che si può imparare solo con la fatica di anni e col sussidio di una sicura vocazione».

Cominciai a scrivere “seriamente” intorno al 1982. In seguito chiesi soccorso al mio ex professore di Lettere, Dino Pieri, che mi fece il nome di due poeti del luogo: Ferruccio Benzoni di Cesenatico e il più maturo Renato Turci di Cesena. Così, nella primavera del 1983, con in mano le prime poesiole, conobbi Ferruccio; solo più tardi realizzai che non avrei potuto scegliere un momento peggiore per incontrarlo: era appena morto il suo grande amico Vittorio Sereni. Me le restituì dopo un paio di mesi senza alcun commento, o meglio, consigliandomi di leggere e leggere, specialmente un’antologia che in effetti si rivelò fondamentale per la mia formazione, Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo: questa mi fece scoprire diversi autori di cui ignoravo l’esistenza, soprattutto mi colpirono Luciano Erba e Giorgio Orelli.

Dunque tornai sui miei passi e presi a frequentare Turci; l’anno seguente pubblicai a mie spese il libretto Monolocale, da lui puntualmente presentato e pervaso dalla generosa quanto discreta patina dei suoi insegnamenti. Il libretto non dispiacque a Erba, che da quel momento divenne il “supervisore” delle poesie successive, quasi tutte apparse nel 1990 in un opuscolo fuori commercio, I rimanenti, con la Postfazione di un felicemente ritrovato Ferruccio Benzoni. Dal 1990 a quel 1997 in cui Ferruccio morì, della nostra amicizia fatta di mille incontri, discussioni, letture scambievoli, ho già scritto e parlato in diverse occasioni. Con lui mi sono svezzato e sono cresciuto, non saprei dire se più artisticamente o più umanamente.

Comunque sia, chi meglio di lui avrebbe potuto sapere, come scrisse in una Testimonianza a corredo del poemetto Al bar degli amori, uscito sempre fuori commercio nel 1995, di una mia raggiunta «piena maturità»? Maturità riconfermata poi nel 2001 da Giovanni Raboni in Nota a I rimanenti (riproponeva, ampliata, l’originaria plaquette di undici anni addietro), nell’attribuirmi una «pronuncia solidamente e inconfondibilmente personale, al di là delle pur rilevabili tangenze con la vocalità di un maestro (maestro, d’altronde, di quasi tutti noi) come Vittorio Sereni» e «l’appartenenza ideale ed affettiva» a quella che battezzò «scuola di Cesenatico», di cui Benzoni fu il rappresentante di spicco.

A onor del vero, io ebbi stretti rapporti unicamente con lui, certo il più “sereniano” del gruppo. Non v’è dubbio che molto devo alla sua paziente e fraterna mediazione se la mia giovanile infatuazione per Sereni, per i suoi versi, per il suo modo di sentire e pensare la poesia, col tempo si è trasformata in un amore senz’altro ben più consapevole. Posso soltanto aggiungere che riconoscersi in Sereni e confrontarsi con Benzoni ha anche significato prendere confidenza col panorama degli autori a loro affini o in vario modo collegati e nel contempo, direi inevitabilmente, distanziarsi dalla voce di un numero imprecisato di altri autori verso i quali mi sento comunque debitore.

Da questi ultimi si apprende, e non è poco, come non si vorrebbe né si potrebbe scrivere. Dizionari a parte, che rimangono pur sempre i migliori sussidi di ogni scrittore, è soltanto attraverso la lettura di tutti, e conseguentemente tramite una serie infinita di scarti e inclusioni, che ci si avvicina a un’espressione in grado di rispecchiare sempre più fedelmente le verità, il temperamento e la sensibilità nostre. In tal senso, come prima tentavo di dire, non si finisce mai di imparare, se restano vitali in noi la curiosità e l’apertura mentale. Apprendere, non per voler essere originali a qualunque costo, diversi da tutti gli altri, anche perché se Dio vuole a qualcuno continueremo pur sempre a somigliare, ma più semplicemente per il fatto di non riuscire davvero mai a sentirsi “arrivati”, come del resto testimoniano, meglio di ogni discorso, i tanti ultimi libri “nuovi” di poeti che appunto “arrivati” lo erano già da tempo: penso ad esempio al, per molti versi spiazzante, Composita solvantur di Franco Fortini.

D’altra parte, null’altro si vorrebbe che restare fedeli a noi stessi, nel convincimento che già in questo principio risieda quell’originalità di cui spesso i critici, a torto o a ragione, lamentano la mancanza. Ormai sono trent’anni che scrivo poesie e ancora oggi, per me, scriverne una è continuare a chiedermi quale sia la forma più consona senza curarmi delle tante già sperimentate, a cercare di trovare il tono giusto e le parole idonee per farla emergere, anche perché ho sempre considerato ogni singolo testo come un individuo a sé stante, con delle sue particolari esigenze e caratteristiche, come “una data materia”, mai come “una materia data”.

Perciò non sono mai stato in grado di prevedere di cosa parlerà la prossima poesia, né quale aspetto assumerà sulla pagina. Talvolta, questo sì, mi è capitato di trovarmi a fare i conti con materie complesse, sfaccettate, che prima di esaurirsi hanno richiesto testi lunghi (Al bar degli amori) o delle suites (Monolocale, Poesie per Christa, Stanze di motel, Locali). Ad ogni modo, usando una metafora sportiva, mi sono sentito subito più “velocista” che “maratoneta”, e forse anche per questo non ho mai saputo cosa voglia dire esattamente “progettare” un libro di poesie, che per quanto mi riguarda resta essenzialmente una raccolta di singole poesie scritte nel corso di anni, secondo diverse disposizioni spirituali, dove però si spera che ogni pagina rechi l’impronta dell’autore. E qui, detto con tutta umiltà, penso ai Canti di Leopardi.

Posso stare anche mesi interi senza il minimo desiderio di scrivere, anzi con una certa nausea al solo pensiero di provarmici, oppure sentirne il bisogno ma non riuscire a trovare il tempo giusto per farlo, nel qual caso prendo appunti, sempre meno però, perché il più delle volte non mi sono serviti a nulla. Per “tempo giusto” intendo dire che ho bisogno di avere la mente sgombra per ritrovarmi in quello “stato di grazia” o estrema concentrazione che mi permette di fissare cose altrimenti sfuggevoli. Devo essere intenzionato a scrivere, e questo è anche il motivo per cui non ricuso a priori il termine “ispirazione”, ma certo mi ha sempre infastidito quel tanto di estraneo che vi s’insinua. Preferisco parlare, più prosaicamente, di “spinta emotiva”. Dopodiché le mie poesie nascono tutte dopo brevi incubazioni, di ore o giorni, già con una loro ben precisa fisionomia. Poi, di tanto in tanto, per un anno o due, le rileggo fin quando non le sento più soltanto mie, come se si fosse tranciato il cordone ombelicale. In seguito, e comunque non prima di aver chiesto le impressioni e talora i consigli di un paio di amici, traslocano dalla cartella dei lavori in corso a quella degli inediti, pronti per la pubblicazione.

Per quanto riguarda il linguaggio, ho sempre cercato di scrivere con naturalezza, secondo le mie reali possibilità, senza alterare la voce. Non ho però mai dimenticato che da chi scrive si pretende una “coscienza di parola”, per dirla con Roland Barthes, che certo non si può pretendere in egual misura dal parlante.

In questo senso credo che la scrittura in generale, e massimamente la poesia, sia un modo “diverso” di comunicare: rispetto a quello più immediato e fatalmente meno duraturo dell’oralità. Ciononostante, nella sostanza, rimane “un modo di comunicare” e, per quanto mi è stato possibile, ho sempre cercato di evitare ogni sorta di oscurità a favore di una parola chiara e comprensibile, spero, un po’ da tutti. Altresì la poesia, in sé, è e continuerà a essere un enigma che nessuno potrà mai svelare, dal momento che fa parte del mistero stesso dell’uomo su questa terra, e l’artista, pittore musicista o scrittore che sia, altro non fa che rendere questo mistero evidente, di volta in volta attraverso i mezzi di cui dispone, la sensibilità che gli è propria e il linguaggio del tempo in cui si trova a operare.

Nelle poesie parlo generalmente del mio vissuto, riportando alla luce cose, figure o fatti che più profondamente si sono incisi nella memoria, obbligandomi per così dire a un risarcimento, probabilmente perché l’esperienza che ne ho tratto non si è rivelata inutile, cosicché restituendola sulla pagina penso che anche il lettore ne possa in qualche misura beneficiare. È un pensiero costante, quello di chiedermi se veramente per me quella poesia è utile, non arrivo a dire necessaria perché mi sembrerebbe francamente troppo, ma insomma se merita di esistere e dunque di entrare in circolo.

Del resto, come recita il proverbio, «tutti utili, nessuno insostituibile». E chi mai ha avuto la presunzione di rivoluzionare il mondo attraverso poesie, quadri, sculture, melodie, se non, forse, qualche esaltato? Discorso più sensato è quello dell’utilità dell’arte in quanto espressione non effimera di una coscienza collettiva, tutela e trasmissione di quei valori eterni ed immutabili per cui l’uomo si riconosce come tale sin dal tempo, diciamo, dei poemi omerici. Non fossi ancora convinto di questo, smetterei di scrivere domani stesso, e senza patemi.

Qui rammento come fosse ieri la mia perplessità di studente nel leggere il discorso tenuto da Montale nel 1975 per il Nobel, quando dichiarò di trovarsi lì per aver scritto poesie, «un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà». Nobiltà a parte, mi sembrò e continua a sembrarmi una infelice boutade, anzi uno sproposito. Molto meno mi aveva ferito, giovanotto pieno di vita e speranze qual ero, quando lessi nell’altrettanto celebre Intervista immaginaria quel che pensava dell’arte, «che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato», perché immaginavo bene che lì Montale non potesse parlare per me, ma solo di sé, tra sé e sé appunto...

Giacomo Leopardi sosteneva che «il dilettare è l’ufficio naturale della poesia», che «l’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare», che «la poesia può essere utile indirettamente», e queste mi sembrano affermazioni decisamente più credibili. Personalmente, per l’utile sono anche disposto a rinunciare al cosiddetto “bello”. Dico cosiddetto perché, come tutti sanno, il bello è soggetto a mode che vanno e vengono. Invece l’utile è oggettivamente riscontrabile: una sedia del Medioevo è forse meno bella e certamente meno confortevole di una sedia odierna, nondimeno serve pur sempre allo scopo per la quale è stata costruita. Per chiudere la questione, resto ancora dell’avviso di Leopardi: «La convenienza al suo fine, e quindi l’utilità ec. è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella». Che in parole povere significa unire l’utile al dilettevole.



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È il secondo dei due discorsi tenuti il 4 e il 5 marzo del 2009 nell’Aula Magna del Liceo cantonale di Lugano, per il ciclo di incontri poetici dal titolo Le parole, le cose («Gli immediati dintorni» – Incontri 2008/2009 – Liceo Lugano 1); pubblico il primo, riservato agli studenti il secondo. L’articolo completo si può leggere in “Verifiche”, 40, n.2, aprile 2009 e in Sereni e altri dintorni, Bohumil, Bologna 2011.

Franco Fortini




Saba

La mattina di luglio
e a volo l’acqua della manichetta
va su gradini e foglie
e là di certo contenta mia moglie
allegra agita lo scintillìo...

Va la memoria ad un verso di Saba.
Ma ne manca una sillaba. Per quanti
anni l’ho male amato
infastidito per quel suo delirio
biascicato, per quel rigirìo
d’esistenza...

E ora che riposano
il suo libro e il mio corpo
indifferenti
come un sasso o una pianta
o una invincibile ombra nel bosco
(nel vuoto il sole s’avventa
e un’iride ne grida) riconosco
con lo stupore di chi vede il vero
lunga la poesia, lungo l’errore.

Parevi stanca, parevi ammalata
ma t’ho riconosciuta, io che t’ho amata.



Da una canzone dei primi del secolo

O vita, o vita mia,
o cuore di questo cuore,
come sono corse le nostre ore,
come lunga la via!

Se parole dico ancora, se
guardo e non so più che cosa,
la prima e l’ultima sarai per me,
ansia mia amorosa.



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Da Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994.

Giovanni Raboni




   Perché, secondo lei, ci sono così pochi critici di poesia e questi pochi quasi tutti poeti?

   Quella del critico-poeta è una figura che ha una lunga tradizione, soprattutto nel Novecento e non soltanto in Italia. A colpire in questi anni non è tanto il fatto che siano aumentati i critici-poeti, quanto il fatto che siano diminuiti o quasi scomparsi i critici non poeti. Chi ha preso o prenderà il posto dei Gargiulo, dei De Robertis, dei Debenedetti, dei Bo, dei Macrì, dei Contini, cioè dei grandi critici, accademici o no, ma in ogni caso anche militanti, il cui lavoro ha accompagnato e non di rado guidato il lavoro dei poeti italiani fino, direi, alla cosiddetta terza generazione? A me sembra, francamente, di non vedere nessuna figura del genere, né fra i poeti né fra i non poeti; ma ancora meno, appunto, fra i non poeti. Per quanto riguarda, in particolare, i critici dell’àmbito universitario, mi pare che – con pochissime eccezioni, per esempio Mengaldo – tendano a rifiutare, non so se per prudenza o per complesso di superiorità o, più semplicemente, per incapacità, il ruolo del critico militante, che pure (come dimostra l’elenco sommario che ho appena fatto) i grandi critici degli anni Trenta e Quaranta hanno saputo splendidamente conciliare con il ruolo del saggista. Insomma, il panorama è abbastanza desolante, e non mi sento di escludere, purtroppo, che l’assenza di un serio discorso critico possa danneggiare, alla lunga, anche il farsi del discorso poetico.


   Che cosa pensa dello spazio che quotidiani, settimanali e in genere i mass media riservano alla poesia?

   Ne penso tutto il male possibile. Il più delle volte, quando i giornali (oppure la radio, la televisione) decidono di occuparsi di poesia, mi viene da pensare: meglio se non lo facevano, meglio che non se ne occupino affatto. Non c’è né competenza né buona volontà, né onestà né cultura. Quelli che sanno, di solito non parlano (è, per fare un esempio clamoroso, il caso di Alfredo Giuliani, critico letterario di “Repubblica”, che da anni evita accuratamente di parlare di libri di poeti contemporanei); quelli che parlano, di solito, non sanno niente o, nella migliore delle ipotesi, fanno finta di non sapere. Per quanto mi riguarda personalmente, mi sono un po’ stancato: quando propongo ai miei “datori di lavoro”, cioè ai responsabili e gestori delle pagine alle quali collaboro, di occuparmi di un libro di poesia, mi sembra di chiedergli un favore, se non addirittura un’elemosina. Vorrebbero che parlassi sempre e soltanto di Celentano e di Arbore oppure, che ne so, dei romanzi di Busi, cioè delle cose di cui tutti parlano (e di cui, secondo me, sarebbe meglio non parlare affatto). Ecco, questo è il punto: si parla solo di ciò di cui già si sta parlando; e siccome di poesia, in pratica, non parla nessuno, tutti continuano a non parlarne. La “politica” dei supplementi libri, degli inserti libri, delle pagine libri dei grandi quotidiani e quella dei settimanali d’opinione si può ridurre a questo elementare programma: occuparsi delle cose di cui tutti si occupano. Mai che gli venga in mente che le cose, le idee si possono anche proporre...
   Ma, ripeto, la cosa più deprimente e più pericolosa non è tanto il silenzio sulla poesia, quanto il modo in cui il silenzio, di tanto in tanto, viene rotto. I “servizi” sulla poesia sono, in genere, tali da dissuadere i lettori dalla poesia. E la recensione di chissà quale libro fatta chissà come per fare un favore a chissà chi e infilata a caso in un punto qualsiasi della pagina o dell’inserto non è “meglio di niente”, è peggio, molto peggio di niente, perché disorienta, ingenera confusione, disinforma... Se chi dovrebbe decidere e scegliere non sa (e, in genere, non lo sa) quali sono i libri di cui bisogna parlare, va a finire che nessuno si occupa di Wallace Stevens o dell’edizione critica di Cavalcanti, mentre, magari, ci si occupa tempestivamente della plaquette del dilettante torinese (su “Tuttolibri”) o dell’esordiente amico dell’amico del vicedirettore o dello stesso recensore (da qualsiasi parte). E il lettore cosa dovrebbe pensare? che quell’esordiente è più importante di Stevens e di Cavalcanti?


   Pensa che si potrebbe fare qualcosa per migliorare questa situazione?

   Sì, credo che una soluzione ci sarebbe: bisognerebbe “inventare” dei critici di poesia (inventare nel senso di trovare, qualcuno ce n’è, basta cercarlo, e non necessariamente dei critici-poeti: penso a Mengaldo, a Baldacci, a Garboli) – inventare dei critici, dicevo, e affidare loro uno spazio preciso, garantito, magari un po’ solenne: una vera e propria rubrica di poesia, una piccola e non clandestina cattedra dalla quale, periodicamente, potessero dire la loro sui libri che escono (e magari, perché no?, anche su quelli che dovrebbero uscire e non escono), con piena responsabilità e autonomia. In questo modo i lettori interessati (che sono, potenzialmente, molto più numerosi di quelli che attualmente “si interessano”) avrebbero un punto di riferimento affidabile, credibile, un’informazione organica e non inquinata da altri spezzoni d’informazione casuale, non organica e non garantita. Insomma, bisogna ristabilire (so di dire una cosa poco popolare) un qualche principio d’autorità. In Italia escono, ogni anno, centinaia di libri di poesia: è indispensabile che i lettori trovino scritto da qualche parte – in modo, appunto, autorevole – quali sono fra essi i tre o i cinque o i dieci che vale la pena di comprare e leggere, e perché. Giornali come il “Corriere” e “La Stampa”, settimanali come “Panorama” o “Europeo” potrebbero benissimo, se volessero, assolvere questo compito; basterebbero sei, sette articoli in un anno (a patto, naturalmente, che nessun altro, nel frattempo, si occupasse in modo “selvaggio” di libri di poesia in quella stessa sede).
[...]


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Da una più lunga intervista di Antonella Romeo apparsa in “Poesia”, I, n. 3, marzo 1988.

Massimo Raffaeli




 
 Cesena, 2008 (album g. z.)




Benzoni e un gol di Jugovic

Forse conosco meglio la poesia di Benzoni (che ho subito prediletto, fin da La casa sul porto, nel collettivo di Guanda, 1980) di quanto non abbia conosciuto la persona di Ferruccio. A un’ora di treno l’uno dall’altro, ci siamo veduti solo intorno al ’92. Cartoline postali (eleganti le sue, d’una grafia minuta), manoscritti e plaquettes facevano da tramite e ritardavano, come nel paradosso freudiano, la impellenza di un incontro. Poi per la complicità di amici (Francesco Scarabicchi e Gabriele Zani, in un chiasmo affettuoso) ci siamo visti cinque o sei volte a Cesenatico, a casa sua con Ilse. Ricordo anche una sua venuta dalle mie parti, a Jesi, per una lettura pubblica: era teso e molto concentrato, quasi temendo gli sfuggisse il verso, che lui accentuava, però senza enfatizzarlo. La sera, all’osteria, bevve un’acqua minerale francese e disse che era quasi (ridendo sul quasi) come lo champagne.
Era un ragazzo disponibile, generoso, che mascherava un fondo di tangibile cupezza prodigando ironia e penetranti jeux de mots. Intransigente con gli amici, o meglio per gli amici, li difendeva sempre e, se poeti (penso a Sereni, ma anche a Fortini, Raboni, Bandini), li amava di un amore assoluto e persino fazioso: né ho mai visto nessun altro custodirne il ricordo, le carte, le foto, con tanta gelosa devozione.
Non parlava volentieri di poesia. Preferiva indugiare sugli amori che lo avevano incendiato da ragazzo, la politica, il cinema, il gioco del calcio. Teneva per la Juventus, e il suo tifo era ancora più accanito del mio. La notte di giugno del ’96, quando la Juve vinse a Roma la Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Amsterdam, fu Vladimir Jugovic a battere il rigore decisivo, producendosi poi in una capriola liberatoria. (Non so se ora o allora, mi vengono in mente i versi di Saba, teneri e lievitanti “...la sua gioia si fa una capriola, si fa baci che manda di lontano...”, i versi di Goal). Squilla il telefono, è Ferruccio che urla, straparla, forse compone mentalmente rime epiche per l’ex sergente della Stella Rossa, da una cabina di Cesenatico, che immagino in delirio. Mi dice cose che si dicono a uno sconosciuto, o a un fratello.
Quella è l’ultima volta che ci siamo parlati.




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“Confini”, n. 4, 2000. Poi in Compito di italiano. Ricordi e letteratura, affinità elettive, Ancona 2007.

Fabio Pusterla





Ponte Tresa, 2007 (foto g. z.)




Giardiniere


Chino sull’erba, raccogli invecchiato le foglie autunnali
con un rastrello piccolo e un giubbotto
che grida il suo arancione. Canticchi qualcosa.
Per questo non puoi vedere la mia mano
che ti saluta dall’auto. Né, forse,
ricorderai l’antica ragione che muove al saluto
più che fraterno. Eravamo in un prato,
d’estate, e indosso avevamo divise
non ancora ufficiali: tute blu, da lavoro,
mestissime. Tu, quando l’istruttore
fece esplodere il secchio e ridendo sguaiato
disse che questo fa un ventre se è pieno di birra
a colpirlo come si deve, che scoppia e si muore,
tu non applaudivi vociando come la ciurma degli altri.
Piangevi dirotto. E io, nel mio inverno inchiodato,
ti abbracciavo.



............................................................................................................................................................................................. Inedito.

Francesco Scarabicchi





Ancona, 2006 (foto g. z.)



Caro Gabriele, ho ritrovato, per te, un testo mio del 1982 che non entrò nell'edizione del 2001 de  Il cancello (appartiene a La porta murata). Lo dono volentieri alle tue "finestre" perché vi tira una bell'aria e si è fra compagni di strada mica da ridere.
Grazie per ospitarmi.
Tuo
f.


L'ospite

Tutto il mondo
che posso contemplare
è il solo di cui parlo a te,
serale di scialle;
sopra di noi le gronde
verso cui inclina la luna;
per questa strada è transitato
chi non sarà più l'ospite di cena,
per questa stretta passato
e, se riascolto, posso di nuovo udire
il suono degli spiccioli
persi nelle tasche.




Marco Ferri








*
uno accende la lampada del comodino
e la luce si sgrana sui colori
della coperta e delle tende,
supera lo spartiacque
il profumo della pelle

ma il risveglio quello vero
capita da svegli, per caso

a volte soffiando il naso
c'è il sangue o due parole si avvicinano

*
immergere il tutto e il poco
nel discorso delle stagioni
che sembrano le uniche a parlare
con una lingua non ancora perduta
l'unica che pietosamente disinnesca
le lacerazioni dei perché

tutto è chiaro
che appunto niente è chiaro
nonostante l'atlante aggiorni le mappe
nel punto dove siamo
infilzati qui e con l'idea di svolazzare
liberamente



............................................................................................................................................................................................. Dall’inedito Baedeker, informazioni turistiche.

Dubravko Pušek




                                                                              Lugano, 2009 (foto g. z.)




Nevica ancora
sull’umido alone
dell’alba. E solo te
diverte l’ossessivo grigiore della neve.

Un cristallo
può molto se si stacca
da un fiocco
e se, di sua volontà, sceglie
un destino singolare e tragico...

La ferita incessante
fatta splendore.




............................................................................................................................................................................................. Da Effetto Raman, con prefazione di Tonko Maroević e un saggio di Matteo Cavadini, Armando Dadò Editore, Locarno 2001.

Jean Robaey




Modena, 2007 (foto g. z.)



finché non nasce il grido e non si versa
l’anima in pianto come la terra secca
s’imbeve di acqua che rompe dal cielo
mollemente affondano i colori
ma il peso lo sento ancora
sullo sterno che preme la luce
forte ancora manca non brucia
dentro ogni erba sicché riarde
secca più che marmo terra cretosa
che più non piange ancora mi sciolgo si scioglie
sicché l’inverno anzi l’autunno è vicino
cosa si cerca si torna cosa si cerca se torna
così intatto non toccato rimane puro
non toccato lassù la sua idea
s’infiamma per un nonnulla si affanna
alza gli occhi o si perde dispiace stupisce
rassegna arrende lo sguardo alla luce



............................................................................................................................................................................................. Versi inediti da l’epica.

Pier Vincenzo Mengaldo




Ricordo di Vittorio Sereni


[...] veramente in lui l’uomo e il poeta facevano tutt’uno: in una maniera e in un grado che mai mi è stato dato riscontrare presso altri suoi colleghi, nei quali la scissura fra uomo e poeta è così spesso necessità, programma, autentico sdoppiamento.[...] La poesia di Sereni non ha nulla d’intimidatorio, le è del tutto estraneo il gesto di chi esclude dal tempio i profani; è coinvolgente, questo sì, ma in quanto presuppone una compartecipazione, e la sollecita. Nel mondo poetico di Sereni uno vive come a casa propria, e la durata in cui esso costituzionalmente si distende, la sua temporalità quasi di romanzo, è la stessa durata e fedeltà che viene richiesta alla nostra presenza di lettori. Sereni ha detto spesso, per iscritto e a voce, che l’unico modo veramente degno di fare esperienza della poesia è quello non già di leggerla semplicemente, ma di convivere con lei.




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In  La tradizione del Novecento, Einaudi, Torino 2003, pp. 315 e 320.

Vittorio Sereni








Finestra

Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.

Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
– e sto nascosto –
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall’incredibile grillo che quest’anno
spunta a sera tra i tetti di città
– e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.

Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò –
che in gara ora, l’ascolti?
scova sui tetti quel po’ di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.



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La fotografia, degli anni Sessanta, che ritrae Vittorio Sereni nella sua casa di Bocca di Magra, è anche apparsa, per cortesia della famiglia Sereni, sulla copertina del mio Sereni e dintorni, Joker, Novi Ligure 2006.