domenica 30 ottobre 2011

Da “Trieste e una donna” di Umberto Saba



                                                                       (foto g. z.)
 



Città vecchia


Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.




Una meditazione di Antonio Gramsci




     Quistione del perché e del come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni più profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo elemento attuale di civiltà e opera d’arte; altrimenti, alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole, ma sentita vivamente.



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Da Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino, ristampa 1974, p. 81.

Una meditazione di Carl Gustav Jung




     Il tornare a immergersi nello stato primigenio della partecipation mystique è il segreto della creazione e dell’azione artistica, poiché a questo livello dell’esperienza non è più in causa il singolo soltanto, ma la collettività, e qui non si tratta più del bene o del dolore del singolo, ma della vita della collettività. La grande opera d’arte infatti è obiettiva e impersonale e ci tocca nel più profondo. Perciò quello che concerne personalmente il poeta è soltanto vantaggio o impedimento, ma non è essenziale per la sua arte. La sua biografia personale può essere quella di un pedante, di un brav’uomo, di un nevrotico, di un folle o di un criminale; può essere interessante o insopportabile, ma è sempre irrilevante dal punto di vista dell’arte.



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Da Psicologia e poesia, Boringhieri, Torino 1979, pp. 80 e 81.

Una meditazione di Walter Benjamin





     C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta.



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Da Angelus Novus, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino, ristampa 1993, p. 80.

sabato 29 ottobre 2011

Una pagina di Roman Jakobson





     Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, «l’altra gamba corre ancora nella via accanto». Sappiamo che già i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. Abbiamo letto pagine severe sulla vecchia vita mal aerata che i nostri padri prendevano a nolo. Ma i nostri padri avevano ancora dei residui di fede nel suo carattere confortevole e universale. Ai figli è rimasto soltanto un odio nudo per il ciarpame ancora più logoro ed estraneo di quella vita. Ed ecco che «i tentativi di organizzare la vita personale assomigliano agli esperimenti per scaldare un gelato».
     Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di «uomini dello scorso millennio». Avevamo soltanto canzoni affascinanti che ci parlavano del futuro, e d’un tratto queste canzoni da dinamica del presente si sono trasformate in fatto storico-letterario. Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola.

5 giugno 1930.



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Da Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, a cura di Vittorio Strada, Einaudi, Torino 1975, p. 42.      

venerdì 28 ottobre 2011

Da "Il cancello" di Francesco Scarabicchi





Ferruccio

                                      . . . . . . . . .
                                                sole di un sogno, neve


Cancellerò per te l’ombra molesta,
lascerò questa luce a custodirti

ora che l’anno cede la sua voce
da quest’ospite casa di dicembre

alla beltà del dono che si perde
nel silenzio notturno della nebbia.

Distante dalla strada, dopo i passi,
si consegna nel sonno dei bagliori

a una quiete d’inverno che precede
il chiarore crudele del mattino,

le stagioni dei giorni, i nuovi mesi,
sulla via senza nome che non torna.

A te che leggi questi versi basti
la verità che appare e si fa niente

nell’inutile essere del mondo,
fiato d’alba e di notte, aurora e buio

lungo l’argine stretto dei passanti
dove il secolo volta e andando lascia

l’illusione del tempo a rammentarci
questo esistere muto del presente,

l’immagine di te che ti allontani
nella luce di luglio pedalando.



Il nome di poeta





«Il nome di poeta appare sempre più una qualifica socialmente difficile da portare e da sostenere persino nel suo normale ambito letterario.»
Di Vittorio Sereni questo il titolo e l’avvio di una prosa, datata 1956.
Siamo nel 2010, e la sua affermazione è oggi «sempre più» condivisibile, mi sembra.
Dunque come risolvere la questione?
Posso sbagliarmi ma c’è poco da riflettere, le alternative possibili sono soltanto due.
1) Tale «qualifica» è «sempre più» inattuale, d’accordo, ma non si sa mai, prima di accantonarla definitivamente aspettiamo altri cinquant’anni; 2) Essendo ormai “fuori corso”, sarà opportuno quanto meno segnalarla, nei futuri vocabolari, quale termine arcaico o disusato.
Personalmente propendo per la seconda risoluzione, e lancio dunque la proposta di sostituirla con un’altra più accettabile e comprensibile da tutti, certamente più sobria, quella di scrittore e basta  (non “scrittore di poesie”, ché allora saremmo daccapo), lasciando invece la denominazione agli autori di canzonette.
Questa “nuova” qualifica ricondurrebbe al mestiere, con buona pace della poesia, libera finalmente di vagabondare e posarsi dove più le aggrada, come del resto è sempre stato e sempre sarà, in un dipinto come in un brano musicale, in un film come in una scultura, in una fotografia piuttosto che in un componimento in versi, in un romanzo, in una prosa...
Senza più la costrizione di un titolo per sua natura eternamente vacante, torneremmo forse a parlare della poesia tout court, compresa quella che si trova nei versi, quando vi s’impiglia, senza fare di tutti i versi un fascio...

g. z.


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Da Nove prose + quindici, con una Nota di Giampiero Neri, Colpo d’occhio, Rimini 2010.

giovedì 27 ottobre 2011

Un appunto di lavoro di Vittorio Sereni



Posso dire che non disponendo di alcun universo precostituito tendo a formare con la poesia che scrivo una serie di universi provvisori, di cui sono il primo ad avvertire la provvisorietà...



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Cfr. Leone Piccioni, Maestri e amici, Rizzoli, Milano 1969, p. 70.

Appunti dal Garda



                                                                (testi e foto g. z.)



1.
Sulla sponda orientale del lago, a pochi minuti d’automobile una dall’altra, si trovano due piccole località dai nomi particolarmente suggestivi, prima Assenza e poi Val di sogno se si risale la Gardesana o viceversa, è ovvio, se la si discende, ma lo ricordo perché l’ordine d’apparizione di  nomi tali può suscitare un diverso stato d’animo. Per quanto mi riguarda, dopo Assenza mi tranquillizzò la vista del cartello che segnalava l’ingresso in Val di sogno, mentre il passaggio contrario, “dal sogno all’assenza”, lo accolsi con una certa inquietudine.
Emozioni personali a parte, Val di sogno, che indubbiamente è un luogo incantevole, piuttosto che a un nome vero e proprio fa pensare a una pubblicità, che però si spiega e non si spiega lungo il Garda, dove ogni altro luogo meriterebbe di chiamarsi così, persino Assenza, mi permetto di osservare.
Quanto ad Assenza mi sono informato, scoprendo che fino alla prima guerra mondiale il suo nome era Menerolo, che almeno è un nome.

2.
A Sirmione numerosi germani ho visto
folaghe e una coppia di cigni bianchi
e i bimbi “dalla sassosa riva”
gli lanciavano pezzetti di pane,
da una parte le terme di Virgilio
dall’altra quelle di Catullo.
Ma non erano “in rattoppati panni”
i fanciulli di Pound che ho visto,
di Virgilio non so che resti
e di Catullo solo un busto.
Per arrivare alle famose Grotte c’è un trenino
adesso. Qui la poesia tira.
All’ombra della Rocca
in un bar all’aperto
animosi discutevano d’affari,
“ghè la pecunia, la pecunia, te disi!”

3.
Del Vittoriale la prima cosa che s’incontra è la biglietteria.
E all’uscita è il bar D’Annunzio, con annesso ristorante-pizzeria. 



martedì 25 ottobre 2011

Un pensiero di Renato Serra





In particolare direi così: che non ci sono opere veramente formative, ma piuttosto uomini: scrittori che uno si prende come modelli di imitazione spirituale. Cambiano anche nello spirito le stagioni e da una compagnia si passa a un'altra; e alla fine, se è destino, uno si ritrova, dopo avere attraversato imitando molte anime, solo con la sua propria; in una solitudine che è fatta ricca di tutte le avventure lasciate.





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Da una lettera a Prezzolini del 16 giugno 1911.

Una osservazione di Roland Barthes





Che cosa importa sapere se è maggior gloria essere romanziere, poeta, saggista o cronista letterario? Lo scrittore non può essere definito in termini di ruolo o di valore, ma solo da una certa coscienza di parola. È scrittore colui per il quale il linguaggio costituisce un problema, che ne sperimenta la profondità, non la strumentalità o la bellezza.



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Critica e verità , Einaudi, Torino 1969, p. 42.

Alcuni precetti compositivi di Ezra Pound






Oggettività e ancora oggettività [...] Ogni espressione letteraria, ogni parola libresca, sbriciola un po' della pazienza del lettore, un po' della sua impressione che l'autore sia sincero. [...] Il linguaggio è fatto di cose concrete. Espressioni generiche in termini astratti sono una pigrizia; sono ciarle, non arte, non creazione. Sono la reazione delle cose sullo scrittore, non un atto creativo dello scrittore. [...] L'unico aggettivo che vale la pena di usare è quello che è essenziale al senso del brano, non il fronzolo decorativo. La poesia deve essere scritta bene come la prosa. Il suo linguaggio deve essere un buon linguaggio, che non si discosta dalla lingua parlata in nessun modo se non per una maggior intensità (cioè semplicità). [...] Il ritmo DEVE avere un significato. Non può essere semplicemente un'improvvisazione trasandata, senza alcun aggancio e nessuna viva presa sulle parole e il senso, un tumty tum tumty tum tum ta. Non ci devono essere clichés, frasi fatte, giornalese stereotipato. Questo si può evitare solo attraverso la precisione, risultato di un'attenzione concentrata su ciò che è scrivere. La prova di uno scrittore è la sua capacità di concentrarsi in questo modo e di rimanere concentrato fino alla fine della sua poesia, sia essa di due versi o di quattrocento.




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Cfr. Ezra Pound, Lettere 1907-1958, a cura di Aldo Tagliaferri, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 49-51.

lunedì 24 ottobre 2011

Da "Nel grave sogno" di Giovanni Raboni




(Mallarmé)


La mia anima verso la tua fronte o
angelica, contegnosa sorella, dove c’è
un autunno e s’adagia con macchie di rossore
nonché al mobile cielo delle tue pupille sento
che sale, come l’opaco, ostinato zampillo
d’acqua in un giardino deserto vuol raggiungere l’azzurro,
azzurro tenero d’ottobre netto e spento che guarda
nei grandi catini dolcemente una stanchezza infinita
e sull’acqua ferma nel fuoco d’agonia
delle foglie, negli amari solchi del vento
lascia che il sole annaspi lungo e giallo per un ultimo raggio.




(Auden)


Hanno gli squamosi, guizzanti pesci, giù
nelle loro dimore senza fuoco
notizia del calar della notte? Forse no.
Ma chi in terra cammina
e tutti coloro cui le penne
danno la piena libertà del cielo
mutano modi all’imbrunire,
dando retta ciascuno ad una sua
curiosità di specie. Più comune è che il moto
s’attenui, e gli altri sensi, ma non mancano
stravaganti eccezioni: così il gatto
e il gufo, non appena
cede il giorno alle tenebre, più grandi
fanno i loro pensieri, e per dar vita
o toglierla
si mettono in cammino...



sabato 22 ottobre 2011

Una risposta di Marco Ferri





Gabriele mi ha chiesto dei consigli per i giovani poeti, io ho provato più volte a cominciare una riflessione, avendo compiuto questa estate 61 anni, eppure tutte le parole che mi venivano fuori in realtà cercavano di evitare il ridicolo. Forse non ho il sapere necessario per consigliare un giovane e inoltre non credo che i giovani abbiano tanto desiderio di consigli. Il più delle volte fanno di testa loro, e fanno bene, semmai chiedono conferme, ma anche queste io non sono in grado di darle. Il loro precariato è diverso ma molto simile al mio.
Ci sono narratori, nel web, che chiedono e ascoltano i consigli dei lettori. Immagino Proust nella stessa situazione e mi vengono i brividi. Se un giovane fosse Proust, che consigli potrei dargli?
Nella narrativa ci sono anche scritture di gruppo, ma in poesia mi sembra che ognuno sia solo con sé stesso. Credo che sia inevitabile, e anche proficuo per la poesia. Chi va subito alla ricerca di relazioni e opportunità rischia di perdere l’appuntamento con sé stesso. È un appuntamento imprevedibile, può avvenire in qualsiasi età della vita.  Ad esempio c’è chi da giovane scrive delle cose belle o che in quel momento si avvertono come importanti e poi diventa un mestierante, e c’è chi a 60 anni sente che quell’appuntamento è arrivato, perché intuisce di avere la forza e le idee giuste, dopo una vita di illusioni. Ma potrebbe trattarsi di un’altra illusione. Tutto è possibile.
Così mi sembra fondamentale mantenersi giovani.
Ci vuole una grande disciplina per mantenersi giovani da giovani, bisogna essere degli straordinari incassatori, fino ad avere il volto tumefatto e sotto la maschera la lucidità intatta per aspettare. Le delusioni non vengono solo dagli altri, ma anche da sé stessi, rileggendo i propri testi qualche tempo dopo. Il caso singolare di Benjamin Button mi suggerisce un’altra considerazione: il poeta giovane che nasce vecchio ha un problema diverso, cioè ha tutta una vita davanti a sé per diventare giovane. Basterà?
Purtroppo i corpi parlano un’altra lingua. Nel linguaggio della materia, giovane e vecchio hanno un loro senso preciso. La precisione: ecco, questo mi fa pensare.
Se c’è una cosa (oltre al tentativo di restare giovani, che è fondamentale…) che potrei consigliare a un giovane e che sarei contento di leggere nei suoi scritti, è un’attenzione alle descrizioni della natura e dell’universo che le scienze costantemente aggiornano, alla disperata razionalità di questi strumenti umani che potrebbero essere degli utili compagni di viaggio, più utili secondo me delle algide o profetiche trame di ermeneuti e criptomanti. Ma è un’idea, così.




giovedì 20 ottobre 2011

Un inedito di Elio Tavilla





                                                                                        (foto g. z.)




il desiderio di respingere tra i mucchi
di cenere l’assillo della gioventù sfuggita
lo devi a me, un sussulto e l’auto ripara
sotto la mimesi dei tigli
in fiore
                qui non muore mai
la vita, a scoperti fianchi rivolgeva
un’ultima preghiera prima di finire
tra i rottami nella bella primavera
che era già quasi un’estate




mercoledì 19 ottobre 2011

Da "Sinopie" di Giorgio Orelli




La trota


Di domenica setter color sasso
memori tra il piantume
fluviale, scarafaggi
bianchi di morte, sommossi ogni poco dall’acqua
che tocchi: pensare che la vita
dev’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera
incomparabilmente di pregio; e infatti
la trota tanto attesa
– che non giungeva alla misura e argentea
sbatteva nella mano
rustica del pescatore
compagno d’infanzia dopo tanti anni
ritrovato, prudente
ferroviere, così
discreto nell’accennare a quelli
che sono andati di là – fugge,
torna al suo fiume, ci salva.

1962



A un cattolico


Forse sei troppo sano e l’unica tua vertigine
dev’essere codesto scoppiare di salute.
Ma ora che ti stringe l’età detta implacabile
di’, non sarebbe meglio ridurre tutto all’osso?
Suvvia, fa’ che tanti anni di sterco di piccioni
non ti offuschino l’anima se offuscano la chiesa,
fa’ che non vi rintocchi una frivola pendola. Addio.



Due dipinti di Mauro Valsangiacomo



"Impianto marino", olio su tela cm. 120 x 120, 2011.


"Impianto gelo", olio su tela cm. 90 x 80, 2011.



martedì 18 ottobre 2011

Due “Pagine di Diario” di Scipione




[Arco, 5 marzo 1932]


    Tutto sta saldo, attaccato forte. Tutte queste piante vivono, diventano grandi.
     I rami crescono a caso nel tronco eppure obbediscono a voleri precisi, perché si allargheranno così e non di più, tanto per dare a quell’albero la fisionomia che lo farà conoscere. Ognuno ha un suo ritmo come tutte le creature del mondo. Bisogna essere quel ritmo, quella creatura e non diventare un’altra cosa.
     C’è una parte dell’albero che non prenderà mai il sole e in quel posto crescono i licheni e certe piantine di velluto che ne ammorbidiscono la consistenza. Lo sguardo del sole indurisce.
    Credo che i tronchi degli alberi sono rotondi perché l’aria li tocca da tutte le parti.
    Quando si taglia un albero grande avviene questo: che il nutrimento che veniva dalla terra non verrà più e l’albero morirà, ma quello che era già in cammino arriverà fino alle più lontane foglie, come un trenino che oramai sia partito.
     L’ultimo convoglio salirà lungo il tronco impiccolendosi fino a perdersi in un soffio.


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     Ogni cosa creata trova il suo modo d’essere. Se non ne ha, essa sparisce, non è vitale. Se riesce a vivere un giorno, essa vivrà per l’eternità.



sabato 15 ottobre 2011

Una risposta di Jean Robaey




Due parole mi chiedi, Gabriele, per i giovani poeti. Non so bene in quale veste rispondere, se non in quella del senior. La mia esperienza di scrittore di versi è lunga e molta ma poco riconosciuta: non ho cercato riconoscimenti e quelli che ho avuto non sono stati ufficiali. Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni poeti che ammiravo e questo mi è bastato (anche se pochi apprezzavano davvero la mia scrittura, ma questo è un altro discorso).
D’altronde sono stato sempre molto attento e aperto alla scrittura dei giovani – e proprio così è nata la nostra amicizia.
I miei consigli sono contraddittori. Da giovani si è molto orgogliosi (io perlomeno lo ero) e l’orgoglio per la scrittura va benissimo: lo stile è tuo e soltanto tu puoi decidere dei tuoi versi. L’orgoglio può anche portare al desiderio di essere apprezzato: e qui l’orgoglio, secondo me, diventa negativo. Devi essere giudice di te stesso e non aspettarti niente da nessuno. Non ce n’è bisogno e solo tu sei in grado di decidere e giudicare.
Praticamente dunque: leggere molto, moltissimo, soprattutto i grandi (quelli che tu senti grandi), non perdere tempo con le letture inutili; non frequentare i luoghi dove la poesia circola, frequentare la poesia nei libri e in pochi amici. Conoscere personalmente i poeti che ammiri può aiutarti umanamente, non poeticamente, ma può aiutarti moltissimo. Se hai attitudine sociale, se riesci a sopportare gli ambienti dove si produce e si rende fruibile la poesia sei un uomo fortunato e lo puoi fare: questo ti darà forse qualche soddisfazione ma non so se ti farà crescere poeticamente. D’altronde non so se l’isolamento sia produttivo di bei versi. Ognuno ha il suo destino, il suo carattere.
Non ascoltare nessuno, segui la tua strada, segui i tuoi difetti di scrittura se li ami davvero. Fatti guidare dalla sola passione. Ma la passione è esigente.




mercoledì 12 ottobre 2011

Fabio Pusterla: "Sottopassaggi"




Sottopassaggi

   
   La strada scendeva, sia pure di poco, ma come inabissandosi d’improvviso.

   Scendeva tra orizzonti di pietra e di ferro: muri squadrati, che creavano più livelli per il traffico, alte case popolari, terrapieni che sulla destra creavano il piano rialzato della ferrovia. Scendeva curvilinea, anche: con una brusca svolta sulla sinistra, prima, e poi due o tre più brevi e appena accennate giravolte, che a percorrerle in bici o in motorino davano una bella soddisfazione, come di scivolare leggermente su una pista, addentrandosi in qualcosa e, nello stesso tempo, oltrepassando qualche misterioso limite.
   Del resto, da qualunque parte si tentasse di passare, il quartiere era collegato al centro cittadino da gallerie, che superavano dal basso il grande fiume di binari e massicciate. A nord, certo, ci sarebbe stato l’arco di un ponte, di un cavalcavia che tuttavia raramente si utilizzava per andare in città: troppo esterno e fuorviante, lo si prendeva solo in determinate occasione, per dirigersi fuori, ad esempio, o, una volta l’anno, per andare al cimitero a trovare i poveri morti. E in effetti, dalla sommità di quell’arco si godeva per un istante un panorama stupefacente: la ferrovia, vasta e costeggiata di capannoni segreti, rimesse, lunghe tettoie di legno per il carico e lo scarico delle merci, e più distanti le colline, le montagne, il bosco alle spalle che costituiva l’altro limite del mondo; e lì sotto, proprio accanto ai binari, anzi tra i binari dei treni passeggeri e quelli, ben più numerosi, dello scalo merci, lì in mezzo, in una breve oasi silenziosa, il cimitero, spazio geometrico delimitato da un muro, con le sue vie interne ghiaiose e silenti, i cipressi dal colore spento e dall’odore canforoso, e tutti quei nomi scolpiti, quelle statuine raggelate. Ma appunto, escludendo questa possibilità o riservandola ai pomeriggi festivi, dove si poteva camminare a lungo e senza meta, gli altri punti di passaggio erano tutti sotterranei: la lunghissima galleria più meridionale, stretta e liscia, che metteva direttamente nel cuore pulsante della cittadina; l’altra, che si percorreva più spesso rincasando e che aveva qualcosa di cupo, inquietante, con i suoi muri coperti di mattonelle un tempo bianche, ora sporche e viscide, sopra le quali sbottavano minacciose le sporgenze regolari di blocchi di pietra scura, perfettamente allineati l’uno sull’altro, e quasi neri o verdastri, con qualche traccia di muschio o lichene.
   E infine il nostro passaggio preferito: la strada che scendeva sinuosa, con i suoi tre sottopassaggi: non vere gallerie, ma brevi zone d’ombra, accenni di caverna e di buio subito interrotti dalla luce: tra un sottopassaggio e l’altro si vedeva il cielo, con le sue nuvole; si scorgeva, alzando la testa, un frammento di binario, su cui a volte poteva transitare lentamente una locomotiva rossa dalla forma allungata come un coccodrillo; o l’altra, sua parente piccola, sempre rossa ma come rincagnata, che veniva utilizzata forse per le manovre più correnti e veloci. Camminando lentamente lungo il marciapiede, si costeggiava la breve balza erbosa chiusa verso l’alto dalla ruggine di un reticolato; lassù, attraverso certi varchi segnalati da piste terrose che segnavano l’erba, si sarebbe potuto entrare nel regno proibito dei binari e dei treni, cosa che si faceva raramente, con la coscienza di penetrare in un luogo pericoloso e terribile, infrangendo divieti assoluti (e una volta o due: non ci si era forse arrischiati ad attraversare così, verso il crepuscolo, l’intera superficie di binari, come guadando un fiume largo e periglioso, stando bene attenti a rimanere chinati e nascosti agli sguardi, evitando i vagoni in movimento, le luci in arrivo?). Da quell’altezza vietata scendevano talvolta uomini scuri e gravi, vestiti di blu, con galosce vistose, aranciate o gialle, cappelli di pelo che coprivano le orecchie; scendevano fumando, o passandosi bottiglie di birra, battendo le mani nel freddo, smuovendo le zolle e facendo rotolare sotto gli scarponi pesanti i pochi sassi rimasti in mezzo all’erba; se parlavano, lo facevano con voci arrochite, in una lingua per noi quasi incomprensibile, come un dialetto chiuso, un gergo ferrigno per iniziati; e del resto non parevano neppure vederci, mentre balzavano dall’erba sull’asfalto e si dirigevano a grandi passi verso certi locali fumosi dove avrebbero trascorso una pausa colma di cose a noi sconosciute, borbottando qualcosa ogni tanto sopra le tazze e i bicchieri.
   C’era, dunque, questo incrocio di piani, di linee, di vie; questo incrocio di mondi e di realtà, improvvisamente messi in contatto l’uno con l’altro. In alto passavano i treni, più sopra ancora gli aerei, segnando il cielo con una scia bianca; qua sotto correvano automobili, furgoni, e dall’alto al basso transitavano ragazzi e uomini fatti, donne mature e giovani ninfe, presenze note e divinità sconosciute, ombre. C’erano pietra e ferro, terra e erba; sulla scarpata si potevano trovare rari fiori e persino dei funghi, oggetti smarriti e pagine di giornale; e una volta, misteriosamente, in mezzo alla strada apparve una scarpa spaiata, come un ghigno assurdo. Era una scarpa da donna, con il tacco appuntito, che apriva con la sua immotivata presenza lo scrigno dell’immaginazione e delle ipotesi.

   Per quale ragione l’immagine di quel tratto di strada, del tutto anonimo e privo di interesse, riemerge con tanta evidenza nella memoria? Cosa accadeva di tanto importante nel tragitto quasi quotidiano di chi passava di lì, certo pensando ad altro, da fissarsi così potentemente in qualche meandro della coscienza? E ancora: è verosimile che proprio in quei tre brevi sottopassaggi ferroviari stia il germe iniziale di una visione del mondo, la stessa che credo di ritrovare spesso passando in certi paesaggi urbani o boschivi caratterizzati dalla sovrapposizione di prospettive diverse, dalla stratificazione degli spazi e dei tempi, delle materie e dei linguaggi? Lo Slussen, a Stoccolma, le intersezioni di strade, rotaie, tracciati pedonali, acqua e metropolitana (e il riflesso quasi perfetto dei finestrini illuminati sopra il lago, quando la sera si accende di elettricità e tutto pare sospeso e miracoloso nel freddo), e poco più in là il groviglio di costruzioni antiche e moderne che si inerpica sulla costa quasi abrupta; le traboules di Lione, gallerie strette e arcane che corrono attraverso le case e gli ombrosi cortili interni, salendo per scale segretissime verso il quartiere popolare dei Canuti dai volti scolpiti di dolore, corridoi di fuga e di rivolta, cunicoli della speranza e della resistenza; i vicoli di Napoli o di Ancona, il mondo pietroso e arroccato di Alfama, il fascino delle periferie meno turistiche, dei quartieri esterni traversati dagli anelli delle circonvallazioni; o ancora la matassa di arbusti e di tronchi, di rocce incavate e passerelle sospese che posso cercare in qualche luogo poco battuto, nella boscaglia o sulla riva di un fiume dimenticato, sul costone inospitale di una montagna o nella brughiera. Non le rutilanti gallerie parigine, e neppure gli splendidi paesaggi assoluti, assolutamente definiti da una forma univoca e coerente di bellezza: quella del mare o del cielo, del deserto o della neve. Non la perfezione o il sublime, ma il punto di contatto, la mescolanza opaca, l’attrito; il punto in cui qualcosa smette di essere solo se stessa e confina con l’altro, senza peraltro potersi trasformare o smemorare, prigioniera di sé eppure aperta, umilmente disponibile e quasi sul punto di smarrirsi definitivamente, come la scarpa perduta in mezzo alla strada o la luce nell’attimo che segue o precede il buio.
    Una simile coscienza avrebbe iniziato a prendere confusamente forma allora? Qualcosa che oggi posso ritrovare con stupore, tra mille definizioni migliori e certo ben più eleganti e raffinate, nella pagina iniziale di un romanzo giallo di John Connolly, Gente che uccide (e anche la mia passione per questo genere minore, per la periferia più malfamata della letteratura alta, che in molti suscita forse stupore o disprezzo: non nasce nello stesso territorio? Nella speranza che qui appunto, nel luogo più umile e meno propizio, il posteggio di un supermercato o l’antinferno di una bassezza pseudoletteraria, si possa credere più auspicabile e più probabile la provvisoria apparizione di un frammento di verità e forse di bellezza, tanto precaria quanto lancinante):

   «Questo è un mondo a nido d’ape. Nasconde un cuore vuoto.
    La verità della natura, ha scritto il filosofo Democrito, si nasconde nella profondità di miniere e caverne. La stabilità di ciò che vediamo e sentiamo sotto i piedi è un’illusione, poiché questa vita non è quello che sembra. Sotto la superficie ci sono crepe e fenditure e sacche d’aria viziata e intrappolata; stalagmiti e stalattiti e fiumi oscuri non segnati sulle carte che scorrono perennemente verso il basso. È un luogo di caverne e cascate di pietra, un labirinto di tumori cristallini e colonne di ghiaccio dove la storia diventa futuro, l’allora diventa ora.
   Poiché nel buio assoluto il tempo non ha alcun significato.
   Il presente si stratifica in modo imperfetto sul passato, non combacia regolarmente su ogni punto. Le cose cadono e muoiono e il loro destino crea nuovi strati, ispessendo la crosta superficiale e aggiungendo un’altra sottile membrana a coprire ciò che giace sotto, nuovi mondi sui resti dei vecchi. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, gli strati si accumulano e le imperfezioni si moltiplicano. Il passato non muore mai per davvero. È sempre lì in attesa, appena sotto la superficie dell’ora».

   Il presentimento, ancora vago, di una complessità: questo forse era il tesoro che le tre caverne sotto la ferrovia potevano schiudere al viandante privo di certezze. E a ben guardare, allora come oggi, ciò che spesso si è chiamato pienezza, armonia è una sensazione, per il poco che mi è accaduto di conoscerla, che non posso non correlare a un improvviso senso di densità del mondo e dell’esistenza: una densità leggera, luminosa, in cui ogni elemento, ogni atomo di Democrito, si rivela parte di un tutto non coeso ma conglomerato, non liscio e polito ma opaco eppure splendente a suo modo, opacamente splendente, non immobile ma vorticante eppure  per un attimo tutto intero presente nelle sue mille sfaccettature, difficile e accogliente, non privo di ostacoli e cupe minacce eppure anche ricco di fiducia e di promesse. L’universo che in questo istante sembra rivelarsi alla coscienza non può avere una forma definita; ma certo è caratterizzato più da un senso di profondità che da una superficie, più da un’intuizione verticale che da un’espansione nello spazio, più dal segreto curvilineo della sfera che dalla logica chiarezza di una linea. Lungo l’asse verticale, lo stesso che dall’erba e dall’asfalto balzava allora verso i binari e verso il cielo annuvolato, affiorano i tempi, si stabiliscono impreviste connessioni, le parole distanti e i volti dimenticati si chiamano e si rispondono; e proprio di questo forse parlavano nel loro linguaggio incomprensibile gli uomini vestiti di blu che scendevano enigmatici dai buchi nel reticolato; a questo alludeva la scarpa femminile rimasta solitaria in mezzo alla strada; questo gridavano le rondini stridule vorticando nei sottopassaggi. Ci voleva, per proseguire il viaggio, una certa lucidità dello sguardo, e la prontezza di accogliere le visioni laterali, le immagini che si sarebbero appena registrate con la coda dell’occhio; ma, anche, una forma dell’intelligenza diversa da quella più ufficiale e più ammirata, un’intelligenza capace di vedere ciò che non può essere visto, un’intelligenza empatica, forse, una direzione dello sguardo che per manifestarsi avrebbe avuto bisogno dello smarrimento e della cecità, dell’abbaglio e del buio. O, più semplicemente, della pazienza e dell’umiltà necessarie per sopravvivere lungo strade desolate e mediocri, oggetti smarriti e oggetti ritrovati casualmente, assenza di gesti eroici e di sublimi agnizioni. La pazienza e l’umiltà: cose poco eroiche, non molto raggianti, né facili da scegliere; ma a questo avrebbero semmai pensato la vita, il caso, le piccole e grandi disavventure, perché forse la pazienza e l’umiltà non si possono scegliere una volta per tutte, e tanto meno lo si può fare quando si è molto giovani; possiamo al massimo incontrarle lungo il cammino, compagne di strada un po’ smunte e impolverate, da seguire silenziosamente, imparando da ciò che non dicono, dai loro gesti misurati, dai loro sorrisi sempre incerti.
   Tra il primo e il secondo sottopassaggio, e poi anche tra il secondo e il terzo, sul lato privo di marciapiede, una strada saliva perpendicolare, vietata al traffico e ai pedoni, verso gli uffici ferroviari, battuti da operai, spedizionieri, forse contrabbandieri; la si vedeva salire bruscamente, poi placarsi come se avesse raggiunto la sommità di una gobba, dove si stagliava una sbarra rossa e bianca, e poco oltre qualche baracca di legno, dei vagoni immobili. Mai stato lassù, davvero mai stato, nell’arcano di quei luoghi superiori. Ma talvolta, camminando, si avvertivano contemporaneamente un rumore anomalo e un odore pastoso, e dopo un istante appariva il carro trainato da un cavallo e guidato da quello che tutti chiamavano Bigìn, vero e taciturno signore del luogo, che si presentava come un nocchiero infernale. Erano, credo, l’ultimo carro e l’ultimo cavallo della cittadina, l’ultimo barbaglio di un’epoca quasi terminata, quasi del tutto scomparsa; del cavallo ricordo soprattutto i paraocchi, i finimenti scuri, le froge e il loro respiro fragoroso, con sbuffi come di fumo, e quelle tracce brune, compatte e odorose che restavano sull’asfalto e che le prossime automobili avrebbero cercato di evitare spostandosi bruscamente da parte. Il carro, invece, l’avrei conosciuto meglio, salendoci anche nei pomeriggi di gioco, quando sostava sotto gli ippocastani dal Lazzaretto, dove si andava a correre, arrampicare e combattere. Di quale Lazzaretto si trattasse, lo ignoravamo, come forse ignoravamo il significato del termine (anche se certe narrazioni di epidemie antiche, e poi di soldati italiani internati per qualche tempo in quelle baracche, prima di essere tradotti a nord, nei campi di lavoro dell’Altipiano svizzero, erano giunte sino a noi); certo non avevamo ancora letto Manzoni, né percorso i quartieri un po’ tristi che dalla Stazione centrale di Milano salgono verso l’antica cerchia delle mura. Ma al Lazzaretto si andava spesso, comunque, più o meno ignari; e il carro del Bigìn, o forse un altro al suo così simile e lì abbandonato, permetteva di fare molte cose: salire più in fretta sugli alberi, viaggiare lontano fino al Rio Bravo o a Forte Alamo, ruotare faticosamente la manovella del freno, immaginando le criniere alte nel vento della prateria, stremarsi in scontri vorticosi di castagne d’india e di ghiande. Poco sotto di noi, gorgogliava l’acqua di un piccolo ruscello, che di lì a poco sarebbe sparito, come ogni altra cosa di quel tempo incenerito, e che tuttavia forse scorre e gorgoglia ancora, non visto né avvertito, sotto le cantine dei palazzi che su quei prati paludosi sarebbero sorti per ospitare le numerose famiglie, soprattutto straniere, che nel quartiere in espansione si sarebbero stabilite, e non avrebbero mai potuto vedere né forse immaginare l’antichissimo Bigìn, divinità ctonia che collegava i mondi guidando lentamente il suo ultimo cavallo. Non so cosa trasportasse, e per quale ragione a lui fosse concesso di salire faticosamente quel tratto di strada a noi proibito, schioccando la lingua per incitare l’animale, la pipa in un angolo della bocca, il cappello sopra la zazzera grigia, il gilé o la giacca da lavoro, i baffi; non so cosa trovasse oltre la sbarra che si alzava per lui, e non so quale a me sconosciuto paesaggio si aprisse allora davanti ai suoi occhi, che forse già guardavano altrove.


lunedì 10 ottobre 2011

Dal “piccolo diario acerbo” di Marco Ferri




qui si diventa vecchi
senza passato, come il melograno
spinoso e senza fiori, camminando
tra specchi d’acqua e residui di piogge
e foglie e fogne puzzolenti

uno cammina verso i significati
che non trova né li ha persi per strada

ma in quali tasche è finito
il senso, del tutto o di una piccola parte,
le mani nelle tasche sbriciolano
solo foglie secche