giovedì 29 settembre 2011

Da "Pietra sangue" di Fabio Pusterla




Arazzo


Galleggiano detriti. Fili d’erba, una striscia
di verde, controriva. Dopo, foglie
bordeggiano di giallo e infine i rami
chiudono il tricolore dello stagno. Viene un pesce
già morto ad incagliare il proprio argento
nella lieta flottiglia delle scorie,
nell’arazzo che fonde le storie
di ciascuno e le muta in fanghiglia. E la rana
che vive tra i due regni sporge un occhio
fisso, liquido e nero. Poi s’immerge.






Furia di Nina nei pressi di Modena


E io non sono niente di tutto questo.
Voi lo sarete: voi.
Sarete sordi, sarete muti, sarete ciechi.
Sarete una spiegazione.




Da “Il prato più verde” di Luciano Erba




Gli anni quaranta


Sembrava tutto possibile
lasciarsi dietro le curve
con un supremo colpo di freno
galoppare in piedi sulla sella
altre superbe cose
più nobili prospere cose
apparivano all’altezza degli occhi.
Ora gli anni volgono veloci
per cieli senza presagi
ti svegli da azzurre trapunte
in una stanza di mobili a specchiera
studi le coincidenze dei treni
passi una soglia fiorita di salvia rossa
leggi «Salve» sullo zerbino
poi esci in maniche di camicia
ad agitare l’insalata nel tovagliolo.
La linea della vita
deriva tace s’impunta
scavalca sfila
tra i pallidi monti degli dei.




Le giovani coppie


Le giovani coppie del dopoguerra
pranzavano in spazi triangolari
in appartamenti vicini alla fiera
i vetri avevano cerchi alle tendine
i mobili erano lineari, con pochi libri
l’invitato che aveva portato del chianti
bevevamo in bicchieri di vetro verde
era il primo siciliano della mia vita
noi eravamo il suo modello di sviluppo.



martedì 27 settembre 2011

Da “La cometa” di Elio Tavilla



[...]

E infine cosa resta, oscuro, inattuato
ingrato grumo di coscienza, forza
insoddisfatta, impura, ostile, sfatta
al primo naufragare in pene astratte
e vacue, consueto tic di suoni e urla
agitàti in me, un io straniato e sia
paesaggio interno di rovine, uno
che si candidi al silenzio e invece
apra la sua voce roca contro un’erta
stagliata estrema e spoglia tra marcite
e sterpi. Qui che mi rinomino nel mentre
non sono in me ma si trascende
il sibilo agguerrito di un eloquio
fratto, brusco, inaccessibile per via
di mera cortesia, un nome appena
per poi disgiungerne i due capi – male e
malinconica sostanza – e ritornare
sui propri passi, una distanza che si colma
più da sé che per appostamenti decisivi
da onda in onda, a tu per tu col mio
ed il tuo nero. A parlare, a dire cosa
come e quando e sino a che e per quanto
riformulare un quinto, più preciso
insegnamento: vivi inappagato e senti
l’arretratezza del grecale su vestiti
sgombri di calore e pioggia, un fronte
di tempesta che si sfrangia verso nord
e tu, mio meridione, a diffonderti
nel cupo, desolato contrafforte di macerie
a piena oltranza di rabbioso assalto
e sfiato e folto giacimento, umore
d’antracite. Svettano così in porto
i simboli issati dalle navi a immagine
di un carico ignorato dalle masse
d’erbe acquatiche che le assillano
in profondo. E me in mistero eretto.

Regina governata dalle spesse
coltri di fumo ingigantito nei segnali
del giorno ancora infisso nella notte.
C’è un cuore, una forma indefinita
pur nitida e stagliata nella zona
inaccessibile del mondo, persona
e cosa guadagnate in arrendevole
vicenda di pena e di pietà nel nulla
rifondate, temuta schiera, semi
di verbena, mani sudate. Giunge
la sua lunga ora, diranno più parole
di quante se ne dicano nel sogno
della morte inapparente, un quasi
tracimare di pienezza e senso
ritrovato, sin qui presente, avuto
in grazia di risarcimento e ora
giustificato nella santità dei corpi
viventi e suscitati in un’idea
di stanza, varco, luce suprema.



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Dal testo intitolato L'ansia.

domenica 25 settembre 2011

Un dipinto di Claudio Sardo




“Veduta di Menton”, olio e tempera su tela indiana cm. 70 x 120, 2011.
 

mercoledì 21 settembre 2011

Un inedito di Francesco Scarabicchi





Ah


Ah, il tempo che passa alle mie spalle,
sulle mie scarpe nuove, sulla pelle,
il giovane tempo che non ho incontrato,
il tempo abbandonato a mia insaputa,
quello smarrito lungo vie contrarie,
il tempo solitario d’ogni notte,
il tempo che mi viaggia e non ritorna,
tutto il tempo del tempo che c’è stato,
il tempo immaginato che perdòno,
quello di un’altra estate che scompare,
il tempo innamorato che è lontano,
il tempo che si volta e non si ferma,
il tempo muto che si fa guardare,
il tempo intero che non puoi pensare,
quello che prende solo per lasciare.




martedì 20 settembre 2011

“Il Monte Analogo”, rivista di poesia e ricerca



Come e perché è nato Il Monte Analogo? Siamo partiti da una comunione d’intenti, anche se non tutti dichiarati, non tutti chiari. Si sa, solo facendo le cose si chiariscono gli obiettivi. Così è stato per la nascita di questa rivista di poesia oggi arrivata al numero tredici (il primo numero è del febbraio 2004). Siamo partiti insomma più di tutto da una voglia di fare. Sai che intorno a te ci sono decine di conoscenti e amici che amano leggere e scrivere poesia, sai che intorno a te in una circonferenza più vasta ci sono centinaia di scriventi: dopo scopri che sono migliaia. Sai che offrire una rivista cartacea di sessantaquattro pagine, mettendone a disposizione una trentina per quattordici, quindici poeti e poete a numero, cioè due pagine ciascuno, è un’offerta di accoglienza cui è difficile resistere. L'obiettivo più chiaro sin dall'inizio è stato questo: dare voce ai non noti, ai poco noti e ai trascurati. Giovani e meno giovani. Sin dall'inizio sai anche, e soprattutto, che devi garantire la validità, la serietà della selezione. E qui l’impresa svela la sua natura individuale e collettiva. A monte di tutta l’iniziativa c’è una base composita di una decina di poeti e poete che sono soliti incontrarsi da tempo per leggere e discutere di poesia: si tratta del ‘gruppo del venerdì’ di Milano oggi animato da Valeria Dal Bo e che ha come punti di riferimento l’opera scritta di Giampiero Neri e lui in persona. Il numero dei partecipanti all’impresa è poi salito in breve, ma lo spirito è rimasto quello (attualmente siamo all’incirca una ventina). Ciò potrebbe far pensare a un gruppo compatto, omogeneo quanto a modo di dire in versi e di valutarli. Ma non è così. Certo di versi orfici nel gruppo redazionale non ce ne sono, mi sembra di poterlo dire. Di versi misticheggianti nemmeno. Di ricerca del sublime non è che se ne senta il bisogno. Se mai si può rischiare un eccesso di realismo, di puntualità, di occasionalità narrativa. Però si battono sentieri nei quali il mistero della vita, della morte, della natura crea turbamento. Ma soprattutto ci si tiene stretti a una lezione abbastanza semplice e tuttavia difficile: il verso deve riuscire a darci un’emozione ma non può in essa risolversi, il verso deve avviarci verso una riflessione ma non può in essa risolversi. Buona dunque la lezione di Leopardi quando nello Zibaldone sostiene che oggi la poesia non può essere che sentimentale e filosofica. Su quel ‘sentimentale’, nei due secoli che ci separano da lui, ci siamo chiariti le idee. Abbiamo infatti torto il collo al sentimentalismo e alla ridondanza retorica, compresa quella delle passioni, da una parte. Ma abbiamo torto anche il collo al cerebralismo e alle fughe del significante dall’altra. Con questo non ci si illuda che la selezione di quindici fra autori e autrici avvenga con voto unanime: questo è un caso a dir poco raro. D’altra parte diciamolo, quando il poeta c’è davvero non è poi così difficile riconoscerlo (dice Neri: non occorre bere tutta la botte per capire se il vino è buono!), il fatto è che perlopiù nell’immaginario comune poesia fa ancora rima con la banalità dei sentimenti e l’estenuata osservazione dell’io. Per non parlare di coloro che chiedono alla poesia identità, autoterapia, illuminazione, ecc. La poesia può molto, non tutto. Buona la lezione di Leopardi: ‘la poesia aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita’ (Zibaldone, pag. 4450, 1 febbraio 1829). Un mese dopo a dire il vero rincara un po’ le dosi: ‘togliere dal mondo civile la letteratura amena è come togliere dall’anno la primavera, dalla vita la gioventù’ (pag. 4469, 6 marzo 1829).
                                                                                     Paolo Rabissi


............................................................................................................................................................................................. L'intervento di Rabissi è stato da me sollecitato. g. z.

Da "Cantone Malo" di Renato Turci



Vita scomoda


A rincorrere sempre il bisogno il povero ha la vita scomoda. Nella sua casa non c’è posto per le debolezze. Manda i figli a crescere nella strada. Per avere qualcosa di meno tra i piedi.




La conoscenza


Adolescente sognava di farsi almeno una volta una donna. Diceva che dopo poteva anche morire. Da allora ha ripetuto senza fine quell’atto d’incontro che gli resta sconosciuto. E non c’è più niente per farlo contento.




Rapporti


La rivalsa di questa gente è chiamare Dio uno storpio.




Epigrafe


La verità viene senza parole. Se uno adopera i sensi mica parla.




L’evidenza


C’è la donna e c’è l’uomo. Non è male bastonare una donna. Si smuove l’aria e poi è legge. La donna si mantiene più asciutta e non immalinconisce. C’è la donna ma anche l’uomo. È di tutta evidenza.




In città


Uscire da Malcantone è come fare un viaggio all’estero. Tra gente di un’altra razza. Neanche la parlata è la stessa. Porte che si aprono senza toccarle. Scale mobili. Feltri. Ascensori. Citofoni. E muri di vetro. Come nei films dove si cammina in fretta e nemmeno del tutto presenti. Ed è fatica pensare.




lunedì 19 settembre 2011

Un inedito di Paolo Rabissi



La scalata di San Marino


Bastava salire fino alla porta
e restarne fuori, al di là c'era
la repubblica di San Marino.
Chi fosse Marino non l'ho mai saputo.
Da Rimini mare fin lassù
con le nostre bici pesanti
– gonfia bene le gomme, dicevano –
ci volevano più di due ore.
Una sfacchinata, di quelle che
fai a sedici anni.
– mo' se ti fai le pugnette non
ce la fai mica!
Poi il rito del ritorno.
Fazzoletto intorno alla fronte
giornale sotto la maglietta
e giù 'a tomba aperta', come diceva Brera.
Arrivavi primo in preda al terrore
per via della bici più pesante
che non frenava bene.
A sera nel viale era tutto un raccontarsela,
fortuna che le ragazze baciavano lo stesso.



sabato 17 settembre 2011

Tre inediti di Renzo Vidale




 
Autoritratto


io che sogno i miei morti,
io che sento nelle vene
scorrere il sangue e i giorni,
tremo (ma poi dilapido il mio tempo),
io che ho paura persino
della coda del ratto delle sabine,
io che scoppio di salute
per tutto ciò che sono
e vorrei tanto non essere,
io che non amo i numeri
ma con la fronte alta conto e riconto,
nelle diverse stagioni,
le foglie nuove e quelle ingiallite.




In Galleria


In equilibrio su un solo piede,
il tacco sui testicoli del toro,
l’impermeabile svolazzante
nella perfetta giravolta.
Il  giovane rampante
riprende rinfrancato la marcia,
cartella di pelle a tracolla,
a piene gambe verso il suo futuro
di leopardiana memoria.




No! Ma non è possibile!


No! Ma non è possibile!
Che cosa tremenda!
E quando, e dove e
soprattutto come.
Una persona così squisita,
buona dolce altruista intelligente
riservata estroversa sensibile
generosa parsimoniosa
religiosa ma anche laica
laica ma anche religiosa,
così pronta all’ascolto,
a dare buoni consigli,
soprattutto se non richiesti,
buon padre di famiglia,
figlio sollecito,
marito irreprensibile,
affettuoso amante,
vero amico,
soprattutto nella buona sorte.
E, naturalmente, onesto.
Che altro dire?
Ne sentiremo tutti la mancanza.

Scusate, ora devo lasciarvi,
piove e non ho l’ombrello.



venerdì 16 settembre 2011

Benzoni attraverso Truffaut



Ferruccio Benzoni sosteneva che la sua poesia implicasse «una complicità, una familiarità, una dimestichezza», da parte del lettore.
Su questo argomento, i primi due versi di Se una poesia (da Fedi nuziali, Scheiwiller, 1991) sono illuminanti: «Se una poesia non è mai compiuta / ma soltanto abbandonata»... in quanto ci parlano sì di “abbandoni”, ma temporanei, non definitivi, ossia di rinvii, di “a rivederci”, di una poesia sempre da riprendere, da rivedere, o da riscrivere, se si preferisce. 
Significa che non basta leggere qualche testo a caso di Benzoni, per poterlo pienamente apprezzare, perché se è vero che le sue poesie, prese singolarmente, risultano “non finite”, è altrettanto vero che il lettore può sempre contare sul fatto che “ritorneranno”.
E rieccoci dunque al lettore che si augurava il nostro amico. Un lettore partecipe, capace di appassionarsi delle sue ritornanti, mai dismesse passioni.
Lettori che perciò, come ho già ricordato in diverse sedi, necessitano di poter usufruire di quel “tutto Benzoni” che finora conoscono, purtroppo, solo in pochi, Sguardo dalla finestra d’inverno, l’ultima raccolta autorizzata, uscì postuma, presso Scheiwiller, nell’ormai lontano 1998.
Detto questo, la passione più ricorrente è quella per il cinema, nelle poesie di Benzoni, il quale addirittura apre Fedi nuziali con la seguente Giustificazione, «Questo libro è un lungo piano-sequenza (dico con il cinema) di tre anni. In pratica un diario senza montaggio.»
Che non vale solo una possibile chiave d’ingresso al libro, attraverso il richiamo a una precisa tecnica cinematografica e a una scelta estetica, ma è forse, soprattutto, un preciso omaggio a un certo tipo di cinema, a certi registi, alla Nouvelle Vague, all’amatissimo François Truffaut...  
Se poi, come si diceva prima, il lettore non è un lettore casuale, può avere la fortuna che ho avuto io, quest’anno, quando sono andato a rileggermi Autoritratto*, che raccoglie lettere scritte e spedite da questo straordinario regista tra il 1945 e il 1984.
Chiede a Helen Scott, in una lettera da Parigi del 1963: «Quali sono gli articoli parigini che le servono: libri, giornali, riviste, dischi, caramelle?» Non ci è dato sapere la risposta dell’amica americana, sappiamo però quella di Benzoni. Da una poesia squisitamente sua, intitolata Senza Eredi (da Numi di un lessico figliale, Marsilio 1995):

Libri giornali riviste dischi caramelle:
quanto di più amo con un po’ di grippe.
E la gatta naturalmente.
Come di jersey il suo pelo.
È la mia solitudine
affettata (ammetto) sfiatata
se spiove; se ho un po’ di tosse.


* François Truffaut, Autoritratto, a cura di Sergio Toffetti, Einaudi tascabili, Torino 1995. Questo il libro dove, a pagina 135, ho scoperto la citazione. Evidentemente Benzoni deve averla invece ricavata dalla prima edizione «Supercoralli» 1989, perché il testo dei Numi appartiene alla sezione Convalescenze, datata 1991.

g. z.


Da “Fedi nuziali” di Ferruccio Benzoni




I morti amici


Ben presto verranno a sapere
(tu forse dimenticando...)
la solitudine cos’è se disarma
in un sopore d’animule.
Ma saranno mai soli, sapranno
mai cos’è una passione?
Dondola a un vento il canale,
e tu che ringhi
           andrò via, me ne andrò
  lo so: non ci credono.
Qui sepolto ti vedono, solo,
con l’arroganza d’averci creduto.


1985




Altra guerra
                                                 a Vittorio


Rideva con tutta la nicotina della guerra,
delle minute possibili catastrofi
di una guerra girata altrove.
Non l’amore gli faceva torto
se un fiume fulgeva o un amico
ma uno sgarro di devozione
alla gioventù: la vita girata altrove.



Se una poesia


Se una poesia non è mai compiuta
ma soltanto abbandonata
dovrò rivederti a prestito
supplicarti come da una grata.



Lager


Secca come una frustata
volsi gli occhi quando il medico disse
                                            « a torso nudo ».




giovedì 15 settembre 2011

Piccola intervista a Fabio Pusterla




Caro Fabio, sei conosciuto soprattutto come poeta, ma poi è anche vero che per molti ragazzi tu sei stato o sei il prof. Fabio Pusterla, docente di lingua e letteratura italiana al Liceo cantonale di Lugano e all’Università di Ginevra. Come vivi questi due “mestieri”, coesistono naturalmente in te, come si potrebbe anche dedurre leggendo le tue opere, dal forte contenuto civile, oppure no?


Mah, io sono, è vero, soprattutto un insegnante di liceo (l’esperienza universitaria di Ginevra è durata un paio d’anni; ora ne sto cominciando un’altra a Lugano, e sono cose che mi piacciono molto e che mi obbligano a rimettermi al lavoro ogni volta; tuttavia, dopo tanti anni, lo so bene: io insegno soprattutto ai ragazzi in età di liceo, e mi piace farlo), o comunque di scuole medie superiori. Lo faccio se non sbaglio da quasi trent’anni e, malgrado un certo logorìo, questa è una professione che ancora mi affascina, e spesso mi entusiasma. Non so bene dire in che rapporto sta questo lavoro con l’altro, più segreto e solitario, della scrittura poetica; per molto tempo mi è parso che tra le due cose ci fosse un dialogo complicato, a tratti contraddittorio, che cercavo di risolvere dicendomi, più o meno in buona fede, che dagli studenti potevo imparare molte cose, entrando in contatto talvolta molto ravvicinato con le loro vite, con i loro problemi, e così via. Non era un alibi; ma non era neppure abbastanza. Col tempo, con le letture e con la riflessione mi è parso di capire qualcosa di più importante; e cioè che tra l’urgenza espressiva che ti può spingere verso la parola poetica (o, si capisce, verso un altro linguaggio artistico) e l’adolescenza o comunque l’età giovanile esiste forse un rapporto profondo: è in quel momento, in quegli anni, che può capitare per la prima volta, e nel modo piû sconvolgente, di intuire che una parte essenziale, bruciante e tormentosa del nostro essere non riesce ad essere indagata, spiegata od espressa da nessuno dei linguaggi che comunemente usiamo e che la scuola ci insegna. Eppure quell’esperienza, quella affezione dell’animo come diceva Leopardi, chiede ascolto e voce: e forse solo un linguaggio artistico e creativo è in grado di tenderle la mano, di darle senso. Sicché, tutto sommato, non avevo torto: sono davvero io che imparo dagli studenti,  perché la tempesta e la confusione che talora li attraversa mi aiuta a non perdere di vista ciò che davvero conta nel processo creativo, e a ritornare costantemente all’origine della parola che chiede di essere detta; e d’altro canto posso sperare che il mio tentativo di scrivere mi permetta almeno ogni tanto di risultare ai loro occhi un po’ meno prevedibile, un po’ meno noioso, forse persino un po’ più convincente. Oppure potrei anche dire questo: che insegnare al liceo mi impedisce di credere che la letteratura e la poesia siano un monumento dato una volta per tutte, possiedano un valore assoluto; il loro valore è enorme, certo, ma va ricreato ogni volta, e non si esaurisce in sé: si attiva solo attraverso un vero processo di lettura e di fascinazione. E questo diventa possibile soltanto se e quando il testo entra in rapporto profondo con la vita e l’esperienza del suo lettore, che scopre qualcosa di sé nelle parole di un altro essere umano. Se qualcosa del genere avviene, la letteratura ha un senso. Altrimenti, no.


Tu che studente eri, e oggi quali studenti (e genitori) ti augureresti di incontrare, da insegnante?  Poi, tra la scuola dei tuoi anni e quella attuale, che cosa è cambiato, in bene o in male, ad esempio (non ne sono informato) esistono ancora i voti, per cui se uno come me, ed era posso dire la regola, prendeva 4 in matematica, doveva poi sperare di prendere 8 per riaggiustare la media, oppure due 7 o non ricordo più quanti 6?


Sui genitori non mi pronuncio; li vedo poco, nel complesso, e per lo più mi auguro che lascino ai loro figli e ai loro insegnanti (tra cui ci sono anch’io) il tempo e lo spazio per lavorare autonomamente; e che non credano che la scuola è un self service, dove uno va, si serve, paga e torna fuori con la merce. Non è così.
Quanto agli studenti, non devo augurarmi niente: di solito, sono sempre gli stessi, pur nell’inevitabile mutamento degli anni e delle generazioni: pieni di curiosità, di contraddizioni, di speranze e di paure.
La scuola che ricordo io aveva soprattutto tanti difetti, alcuni dei quali imperdonabili. I maestri picchiavano, umiliavano, talvolta rovinavano i loro alunni. Io ho avuto fortuna, perché ero bravino a scuola e rispettoso, e magari un po’ pavido; ma ho assistito, alle elementari, a scene angosciose, che hanno poi avuto conseguenze gravi. Più avanti, alle medie, le cose andavano un po’ meglio, ma fino a un certo punto. E poi la selezione avveniva su basi sostanzialmente socio-economiche: io sono sfilato quasi miracolosamente tra le maglie di un destino che, con appena un po’ più di sfortuna, non mi avrebbe affatto concesso di studiare. Allora, malgrado le geremiadi di molti insegnanti, pedagoghi e intellettuali: io di quella scuola non rimpiango un bel niente, e penso che oggi le cose siano cambiate in meglio, di molto.  Poi, lo sappiamo tutti, c’è anche il peggio: adesso tutti possono andare a scuola, tutti possono studiare; e l’impressione a volte desolante è che il livello si sia abbassato, la curiosità intellettuale stia scemando, eccetera eccetera. Può darsi che sia così. Ma di chi è la colpa? Dove sta scritto che la democratizzazione degli studi voglia dire automaticamente abbassamento della qualità? Chi ha scelto di indebolire, svilire e minare la scuola pubblica? Come mai i miglioramenti strutturali non sono stati accompagnati dai necessari investimenti finanziari, dal necessario sostegno politico e culturale? Chi ha rubato ai ragazzi la fiducia?
La scuola di oggi è in seria difficoltà, mi sembra; ma la scuola di ieri poteva chiudere gli occhi sulle sue difficoltà, che forse non erano meno drammatiche. 
E i voti? Ah, quelli ci sono ancora. E ancora ci sono gli insegnanti che impugnano i voti come armi da taglio, e quelli che li interpretano in un modo un po’ meno assoluto. Dipende.


Quando andavo a scuola la stragrande maggioranza degli studenti studiava malvolentieri i poeti, direi tutti i poeti, forse un po’ meno i narratori, perché per questi mi sembra di ricordare che non si pretendessero letture pappagallesche o puntigliose parafrasi. Cosicché in seguito non mi sono affatto meravigliato che questa moltitudine di ex studenti, una volta fuori dalla  cosiddetta scuola dell’obbligo, non si sia più sentita “obbligata”, appunto, ad aprire un libro di poesie, e del fatto che gli unici poeti che conosce (quasi solo di nome, s’intende) siano rimasti quelli delle museali antologie scolastiche, va da sé inesorabilmente defunti e imbalsamati. Come dunque avvicinare i giovani alla poesia, senza fargliela odiare? Tu cosa dici loro?


Non so se posso rispondere bene. Intanto, la mia esperienza è un po’ diversa: non so i miei compagni, ma io non ho odiato da ragazzo la poesia, anche se non capivo molto del poco che ci proponevano. Mi affascinava, credo, il ritmo: soprattutto quando lo coglievo (o credevo di coglierlo) in versi o espressioni di cui capivo poco o nulla: versi latini, per esempio, che un certo insegnante scandiva e che io non potevo tradurre. Sicché rimaneva l’involucro, come una formula magica che mi suggeriva qualcosa: un modo ‘altro’ di usare le parole. Che poi vuol dire: sottrarre le parole alla loro quotidianità comunicativa, e intuire che così dislocate esse possono aprire prospettive diverse, e diversamente profonde. Toccare zone sconosciute dell’esperienza, o roba del genere. Se ad un certo punto della mia vita la poesia ha cominciato ad affascinarmi, è stato per ragioni di questo tipo; e sono le ragioni di questo tipo che cerco, a modo mio, di suggerire agli studenti. Dopo, ma solo dopo, arrivano gli aspetti scolastici, storici, strutturali, stilistici. La lettura del testo poetico, si capisce, richiede fatica e strumentazione raffinata; ma perché si debba faticare e dotarsi di un simile bagaglio, si può capirlo solo in un territorio delicato e non facilmente definifibile, in cui la parola e l’esperienza profonda, toccante e dolorosa, trovano un contatto bruciante, un’alleanza o una ferita comune. Senza questa illuminazione, che non è facile creare artificiosamente, il linguaggio della poesia è incomprensibile e inutile.
Allora, non ho un preciso metodo. Faccio quello che fanno tutti gli insegnanti, credo: propongo dei testi e degli autori, cerco di leggerli bene, di farli amare. Soprattutto, aspetto con grande attenzione: che cosa? Il momento in cui mi sembra possibile stabilire un contatto tra questa o quella poesia e la vita profonda di questo o quello studente.  Oggi, mentre provo a rispondere a questa domanda, è capitata una cosa bella: un mio studente, non particolarmente bravo in italiano, ha accettato il mio invito, e ha recitato un canto di Dante di fronte a un pubblico abbastanza ampio e sconosciuto (con alcuni amici abbiamo organizzato una giornata particolare: 34 persone, molto diverse l’una dall’altra, hanno recitato da mattina a sera i 34 canti dell’Inferno dantesco, nella biblioteca della nostra scuola: c’erano intellettuali, musicisti, attori, bancari, giovani e vecchi, matematici e giornalisti; e c’era anche il mio studente, nervosissimo, che ha letto bene).  Come mai ha accettato? Perché un anno fa ho saputo delle cose sulla sua vita, ho conosciuto una sua zona di disagio; gli ho dato qualcosa da leggere, che lui ha letto, senza capire forse tanto bene, ma capendo ciò che davvero contava. Non è che da allora sia diventato bravissimo; però la poesia ha cominciato a parlare con lui, e oggi può avere uno spazio nella sua vita. Se questo ragazzo oggi fosse stato malato, c’era pronto un sostituto: lo studente tecnicamente peggiore di questi ultimi anni, che tuttavia aveva a sua volta accettato; probabilmente perché, prima di accettare questa cosa, ne aveva accettata un’altra, cioè il suggerimento di scrivermi, durante l’estate una lettera ogni due settimane, per raccontarmi quello che voleva. Gli avevo spiegato che magari questo sarebbe stato un modo per migliorare un po’ la sua situazione; sicché mi ha scritto, e gli ho risposto; e poi quando a settembre gli ho presentato l’eventualità di una lettura pubblica di Dante, ha detto che aveva paura di non essere capace, ma che accettava. Tutto questo non c’è scritto sui manuali o sulle antologie; e io stesso, scrivendo queste cose, mi dico: ma cosa sto dicendo? Eppure, caro Gabriele, è questa l’unica vera risposta che so darti.  E si ritorna a ciò che dicevo all’inizio: se la poesia non ha questo posto e questo senso: perché mai dovremmo perdere tempo a leggerla?