domenica 28 agosto 2011

Cinque domande a Walter Galli



È del 1976 la pubblicazione del tuo primo libro La pazìnzia, un esordio non certamente precoce. Vuoi dirmi il perchè di quel ritardo, di quella attesa, se già nel 1951 erano apparse tue poesie sui fogli letterari?

Il libro uscì quando da una abbastanza lunga serie di verifiche e collaudi di lettori importanti mi parve di capire che poteva andare. Del resto erano anni – dal dopoguerra sino a tutto il '60 – in cui la poesia dialettale era una sorta di cenerentola, vivacchiava ai margini dell'attenzione delle riviste letterarie, dei critici e degli editori. Il titolo del libro è in un certo senso emblematico dell'aspetto di quel lavoro: paziente, solitario, di cui però non mi sono pentito; e poi si arriva sempre in tempo... Del resto la sua pubblicazione coincise con la straordinaria fioritura, proprio qui in Romagna, di voci poetiche di grande rilievo che oggi costituiscono la punta avanzata della poesia non solo dialettale.


La tua poesia sembra contraddire l'immagine stereotipa del poeta: un uomo che ambisce parlare di sé a se stesso, rinchiuso nella mitica torre d'avorio.

Spero di sì. Anche di fronte al bisogno di riflessioni o meditazioni, all'urgenza di decifrare i nodi esistenziali, di fare i conti con me stesso come per l'approssimarsi di scadenze improrogabili e temute, la mia scrittura mai si affida alle ciurmerie della bella parola che ipnotizza, frastorna e non lascia segni in chi ascolta. Spero che la mia poesia sia una sorta di diario, il giornale di bordo di questo navigare ignoto e difficile che è la vita, sul quale segnare e rileggere le tempeste e le bonacce, i porti ospitali e i naufragi.


Questa configurazione che mi dai della tua poesia motiva e chiarisce le scelte: la Valdoca, il dialetto. Vuoi precisare più a fondo tali scelte?

Era la Valdoca il grembo e il brulichìo di esistenze minime, dimesse, fuori dalla storia, senza voce, dove le provocazioni, gli insulti, le ferite che la vita non risparmia a nessuno e in nessun luogo, qui erano patiti e bestemmiati con segnali forti; e il dialetto, il veicolo della comunicazione: la loro lingua la mia lingua; lo strumento che mi permetteva di scandagliare meglio, di portare alla luce con più verità, impudicamente ma non impietosamente, le realtà più celate e rimosse di un mondo sommesso e sommerso. Ma soprattutto di ridirlo attraverso una scrittura di minimo scarto con l'oralità antica e quotidiana, quasi una registrazione in diretta, senza filtri o superfetazioni.


Nella tua poesia è riconoscibile una predisposizione all'epigramma: sintesi, battute fulminanti, finali improvvisi e taglienti, e soprattutto l'ironia che stempera la seriosità, l'acredine, la scurrilità, gli intenerimenti del dettato. È frutto del tuo incontro coi classici greci e latini o è qualcosa che ti è naturale?

Le “imitazioni” a cui tu fai riferimento [contenute sia in La pazìnzia che in Una vita acsé] richiederebbero un'indagine critica particolare che io non ho mai tentato di fare, né, penso, ne avrò mai la voglia. Posso solo dirti che il mio incontro con l'Anthologia Palatina e con Marziale avvenne un bel po' di tempo fa – verso il 1960 – quando già il mio lavoro aveva una propria originale fisionomia – quella stessa che ancora lo contraddistingue – per cui ritengo siano da escludersi lezioni o apprendistati esorbitanti da quei maestri. Si trattò semplicemente della scoperta di una affinità, di
una sintonia con un mondo sorprendentemente vicino e attuale nonostante la polvere dei secoli, e poi del desiderio e del piacere di giocarci attorno e dentro con la mia barbarica lingua: liberamente, spregiudicatamente fino all'irriverenza, allo stravolgimento.


Ho notato, in occasione di letture pubbliche delle tue poesie, partecipazione e interesse notevoli. Come giudichi un consenso non sorretto dal momento della riflessione? Ti crea perplessità o ti esalta siffatta unanimità da parte di una platea, in un certo senso provvisoria?

È indubbio che nella proposizione orale la poesia si accende e si esaurisce nell'effimero momento emozionale, scartando o limitando inevitabilmente quello della meditazione, che, al contrario, esige la lettura silenziosa e personale quale unica, sicura traccia che consenta una completa e non equivoca captazione dei valori – spesso in filigrana – contenuti nel testo poetico. Sono però convinto – deducendolo dall'autentico interesse e dalle capacità di discernimento dimostrati dal pubblico – che quella remora non pregiudica del tutto la comprensione globale del messaggio. Penso che l'intensità della fruizione in comune porti il singolo ascoltatore a rielaborare, probabilmente per un effetto di rifrazione, i possibili punti di meno agevole intendimento. Per cui non riterrei giustificabile nel poeta una altezzosità che lo portasse a sofisticare troppo sulla idoneità al recepimento del suo uditorio, o ad applicare tare a un consenso che si esplica in una sorta di comunione della e con la poesia, anche se il mistero viene celebrato nell'inusitato laico tempio di una piazzetta di paese.


Cesena, aprile 1990

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L’intervista a Galli apparve dapprima su "Libere carte", n. 0, maggio 1990, poi è confluita in Sereni e dintorni, Joker, Novi Ligure 2006.
g. z.