venerdì 16 dicembre 2011

Federico Zeri





               Pablo Picasso, “Donna seduta” (Ritratto di Marie-Thérèse), olio su tela cm. 100 x 81, 1937. Museo Picasso, Parigi.




       Quinta conversazione

[...]
   Picasso, che è abitualmente considerato un anticlassico, è in realtà una sorta di compendio di tutto ciò che è stato prodotto nell’area mediterranea attraverso i millenni. Salvo che, invece di guardare soltanto alla pittura o alla scultura greco-romana o a quella del classicismo rinascimentale, ha guardato anche, caso unico, al Medioevo romanico, soprattutto a quello spagnolo, e perfino all’arte delle caverne preistoriche. In realtà, Picasso è una sorta di forza della natura in continuo movimento, e presenta una miniera inesauribile di spunti e di suggerimenti. Alcuni di questi spunti forse un giorno saranno rielaborati da altri artisti, da altre epoche, riciclati per ulteriori sviluppi stilistici.
   Non è che Picasso sia sempre alla stessa altezza. C’è una grande parte della sua produzione, soprattutto quella posteriore al 1945, che a me personalmente sembra molto scaduta di tono. Ma anche in altre fasi Picasso attraversa momenti di puro accademismo, se non di puro divertimento. Dalla sua inesauribile fucina di immagini affiorano comunque segnali preziosi, segnali che, a loro volta, ci aiutano a leggere in modo nuovo opere del passato, che a noi sarebbero sfuggite.
   Picasso eccede spesso in accademismo, come altre volte può eccedere in antiaccademismo, però c’è sempre in lui la carica vitale del pittore nato, del vero genio della pittura. Più d’una volta ho sentito storici dell’arte liquidare Picasso come un semplice caricaturista. Di fronte ai ritratti che lui ha eseguito negli anni ’30, e che per me sono le sue cose più alte, ho sentito dire: «Si tratta semplicemente di caricature!» No. C’è qualcosa di più. C’è una vera erudizione figurativa, e il livello è sempre quello di un autentico genio. Comunque, l’arte di Picasso è un esempio attuale, vivente, del fatto che non è vero che l’arte parli a tutti e al primo colpo.
   Le arti figurative, in particolare, per essere lette han bisogno di un’educazione visiva e di un attento studio del momento storico in cui il dipinto, la scultura o l’architettura sono stati prodotti.
   Notate, a questo proposito, che il concetto di kitsch oggi così diffuso, è generalmente male interpretato. Il kitsch è un fatto assolutamente soggettivo. È il modo in cui si leggono poemi, pezzi musicali, prodotti figurativi, che può rendere insulse le opere più sublimi. Si può rendere kitsch anche Dante Alighieri. Perché non è affatto vero che esista un’arte che parla di prima impressione.
   Tornando all’arte di Picasso, un aggettivo certamente non le si addice: popolare. Nonostante certi programmi politici del pittore, non ha senso sostenere che la sua sia un’arte destinata alle masse. È, anzi, un’arte che ha bisogno di un’educazione visiva particolarmente raffinata. Come ne hanno bisogno anche opere, di altre epoche e civiltà [...]




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Da Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, TEA, ristampa 2001, p. 265.

Alfonso Berardinelli




Qual è il difetto principale della nostra critica militante?

Per avere dei difetti definibili, la nostra critica militante dovrebbe prima cercare di esistere, invece che suicidarsi. I critici letterari che hanno trovato importante il romanzo di Eco o che partecipano per esempio a “Mixer cultura”, sono dei suicidi. Il loro nobile sacrificio, però, è del tutto inutile, perché il pubblico lo sapeva già che un intellettuale è mediamente più stupido di chiunque altro.


Cito dalla tua prefazione a L’esteta e il politico: “I filosofi non ragionano. I poeti sono privi di fantasia. I giornali mancano di curiosità. I preti non sanno niente di Dio. I vecchi parlano del futuro. I giovani si adeguano...”. C’è qualcosa che sfugge a questo trionfo della dialettica?

Credo che si possa sfuggire a questa dialettica trionfante. Basta non aver voglia di partecipare a “quella” festa, con “quegli” invitati... E poi, meno solerzia, meno prontezza, meno riflessi condizionati. Astrarsi, guardare altrove, avere qualcosa di meglio da fare, qualcosa che nessuno apprezza, che non ha prezzo, che nasce e finisce lì, che non si può tradurre in nient’altro, in prodotto o profitto. Più di duemila anni fa, pare che Socrate, di fronte a un’esposizione di merci, abbia esclamato: “È incredibile di quante cose non sento il bisogno”.


Com’è oggi il “pubblico della poesia”?

Non ne so più molto. Dopo averlo evocato, ho fatto il possibile per stare altrove. La poesia come genere letterario mi pare che oggi attiri prevalentemente chi ha meno talento artistico e meno cose da dire. O coloro che hanno l’illimitata umiltà e assenza di ambizione di accettare di essere letti e recensiti dagli attuali lettori e critici di poesia.


C’è ancora, tra i viventi, un poeta che ami? E un altro che ritieni misconosciuto?

Continua a sembrarmi amabile qualsiasi poeta mi convinca immediatamente di essere tale a una prima lettura (e così di solito accade). Di poeti ce ne sono. Sembrano pochi solo di fronte alla massa davvero innumerabile di coloro che scrivono e stampano. In questa situazione, ogni poeta che lo sia veramente risulta più o meno misconosciuto, e sommerso da un rumore fastidiosissimo.




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Da una più lunga intervista di Grazia Cherchi apparsa in “Il Secolo XIX” (giugno 1988), poi in Grazia Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 188-189.

giovedì 15 dicembre 2011

Giovanni Pascoli









ROMAGNA
                                                                                           a Severino


Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra visïon di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridïano ozio dell’aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ’l bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
coi suoi pennacchi di color di rosa;

e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.

Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettìo d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive;
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,

Romagna solatìa, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.





martedì 13 dicembre 2011

Vocabolari d'uso




Poèta [...] 1 Chi compone poesie:   dialettale, classico, ermetico ׀ Il divino – , Dante ׀ est. Chi, scrivendo in prosa o in versi, sa interpretare poeticamente la realtà:  è un vero – ; è un verseggiatore e non un – . 2 est. fig. Persona dotata di grande sensibilità e immaginazione, che ricerca e coltiva ciò che è bello, nobile, ideale, spesso trascurando la realtà: avere un animo di – , essere un׀ pop. Persona strana e bizzarra: vivere da – ׀ pop. spreg. Persona priva di doti e capacità pratiche, che persegue ideali ritenuti utopistici dai più: non combinerai mai niente, se continui a fare il – . ׀׀ poetàccio, pegg. ׀ poetarèllo, dim. ׀ poetèllo, dim. ׀ poetìno, dim. ׀ poetóne, accr. ׀ poetònzolo, pegg. ׀ poetùccio, poetùzzo, pegg. ׀ poetùcolo, pegg.

Il nuovo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Undicesima edizione a cura di Miro Dogliotti e Luigi Rosiello, Nicola Zanichelli, Bologna 1983.



poèta [...] 1. La personalità dell’autore, nell’ambito di una classificazione letteraria o estetica della poesia: i p. dello Stilnovo; il p. della “Divina Commedia”; poeti si nasce, oratori si diventa. 2. estens. Persona dotata di un grado notevole di immaginazione o di sentimento (avere un cuore di p.), polemicamente traducibile, nel linguaggio popolare, in un eccesso di fantasia e in incapacità nelle attività pratiche (poeta... vuol dire un cervello... un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole, Manzoni). [...]

Il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Casa Editrice Felice Le Monnier, Firenze 1990.



poèta [...] 1. chi compone in versi: poeta lirico, epico, classico, moderno ׀׀ T.stor. poeta cesareo, quello ufficiale, stipendiato dalla corte imperiale di Vienna ׀׀ per anton. il divino Poeta, Dante  2. chi è naturalmente dotato di fervida immaginazione e forte sensibilità: animo di poeta ׀׀ scherz. persona dotata di scarso senso pratico, che vagheggia poco realisticamente alti ideali ׀׀ dim. poetìno; pegg. e spreg. poetàccio, poetùccio, poetùcolo, poetónzolo, poetàstro ׀׀ N. 1. Sin. aedo, alunno delle Muse, bardo, cantore, dicitore in rima, giullare, menestrello, rapsodo, rimatore, scaldo, trovatore, troviere, vate, verseggiatore, versificatore ׀ arcade, cesareo, civile, comico, coronato, decadente, dialettale, drammatico, epico, ermetico, estemporaneo, futurista, gnomico, improvvisatore, laureato, lirico, satirico, simbolista, servile, tragico ׀ estro, fantasia, fuoco sacro, furore poetico, genio. Q.T. letteratura...

Dizionario della lingua italiana di Fernando Palazzi e Gianfranco Folena, Loescher Editore, Torino 1992.




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Si avverte che tra il primo e il terzo vocabolario, la diversa accentatura sulla seconda “o” di “poetonzolo” non è una distrazione di chi qui ha trascritto, che ne approfitta, piuttosto, per consigliare al gentile lettore il precedente articolo di Giovanni Raboni. 

domenica 11 dicembre 2011

Giacomo Leopardi




L’infinito


Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.



Recanati: particolare del monumento a Giacomo Leopardi. Opera del 1886 di Odoardo Tabacchi. 




   Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; e di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e in meglio che leggere poesie d’altri: (Pisa, 15 aprile 1828); oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa, 15 Febbraio, ultimo Venerdì di Carnevale, 1928).  [Zibaldone,  4302]


   All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (30 Novembre 1ª Domenica dell’Avvento). [Zibaldone,  4418]




Giovanni Raboni




La lingua è mobile: muta di accento


   Nella generale incertezza che avvolge il nostro Paese è inevitabile che l’incertezza sull’accento delle parole passi perlopiù inosservata. Eppure anche questa è, nel suo piccolo, destabilizzante; e forse, a differenza dell’altra, non sarebbe impossibile porvi rimedio.
   Tanto per cominciare, si potrebbe chiedere a quanti ci parlano ogni giorno dagli schermi televisivi di mettersi d’accordo fra loro, in modo che non ci tocchi più di sentire annunciare un servizio sull’assassinio di Ràbin nel corso del quale si parla dell’assassinio di Rabìn, e che una certa contessa amica di Craxi non venga chiamata, nel giro di pochi secondi, una volta Àgusta e una volta Agùsta.
   Ma quello dei nomi, in fondo, è il minore dei problemi. Il peggio è quando a slittare dal piano allo sdrucciolo, e viceversa, sono parole qualsiasi, parole di uso comune, facendoci venire il dubbio di essere noi in errore sin da piccoli, sin dai tempi delle elementari.
   Possiamo sempre, è vero, prima che il dubbio trapassi in crisi di identità, andare a consultare i dizionari; ma anche con quelli, purtroppo, può capitarci qualche brutta avventura.
   Per esempio, se l’ottimo Dizionario Garzanti della lingua italiana ci procura un momentaneo sollievo assicurandoci che si dice, come abbiamo sempre detto, cucùlo, incàvo, seròtino e zaffìro, il recente e molto decantato Dizionario Garzanti dei sinonimi e dei contrari ci fornisce un cùculo, un ìncavo, un serotìno e uno zàffiro di puro stampo televisivo, suggerendoci l’immagine bizzarra e un po’ inquietante di una casa editrice agitata e divisa al suo interno da oscure faide fonico-lessicali.
   Conclusioni? Nessuna conclusione, ma semplicemente – citando da un testo per pochi giorni ancora inedito della persona alla quale, lo confesso, devo l’ispirazione e gli elementi essenziali di questa nota – un’esortazione: «Italiani, imparate l’italiano!».




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«Corriere della Sera», 14 gennaio 1996. Poi in Contraddetti, Scheiwiller, Milano 1998.

Vocabolari d'uso






Foraminiferi "Odlot". Foto Bernard Remaud.



Foraminìferi /foraminiferi/ [comp. del lat. forāmen, genit. forāminis ‘forame’ e -fer ‘-fero’] s. m. pl.  • Nella tassonomia animale, ordine di protozoi marini provvisti di un guscio calcareo, di forma varia e con uno o più fori  per l’uscita degli pseudopodi, che depositandosi sui fondi marini contribuisce a formare i fanghi abissali (Foraminifera) | al sing. (-o) Ogni individuo di tale ordine.

Il nuovo Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Undicesima edizione a cura di Miro Dogliotti e Luigi Rosiello, Nicola Zanichelli, Bologna 1983.



Foraminìferi  s. m. pl. Classe di Protozoi Sarcodici Rizopodi, per lo più marini o d’acqua dolce, provvisti di un guscio, con un’apertura principale cui spesso si aggiungono numerosi piccolissimi pori attraverso i quali vengono emessi verso l’esterno gli pseudopodî, di solito consistenti in delicati filamenti che si ramificano e si anastomizzano con facilità. [Lat. scient. Foraminifera, comp. di foramen -mǐnis ‘forame’ e del tema di fero ‘portare’].

Il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Casa Editrice Felice Le Monnier, Firenze 1990.



Foraminìferi [comp. di forame e -fero; 1855] sm. pl. T.zool. ordine di Protozoi, il cui corpo unicellulare è chiuso entro un guscio calcareo o siliceo.

Dizionario della lingua italiana di Fernando Palazzi e Gianfranco Folena, Loescher Editore, Torino 1992.





sabato 10 dicembre 2011

g. z.




Sviluppo di una nota

La voce cannezza, dal romagnolo caneza, non è riportata in nessun dizionario di lingua italiana, stando ai quali, tutt’al più, avrei potuto ricorrere a sinonimi come canne palustri o cannucce, quando racconto del lago di mia nonna.
Tra i dizionari di dialetto romagnolo ne ho trovati invece un paio che traducono caneza con canniccio, ma non so spiegarmene la ragione, se poi quelli di lingua italiana sono tutti concordi nel definire il canniccio una stuoia, un graticcio, un cannaio e simili, ossia oggetti fatti di canne, per dirla in breve.       
Peraltro, non mi sarebbe affatto dispiaciuto dire che le sponde di quel lago erano in gran parte ricoperte di canne, anche perché avrei detto una cosa vera, tuttavia mi sarei sentito comunque costretto a precisare che erano del genere palustre, altrimenti qualcuno avrebbe potuto scambiarle per quelle coltivate nei canneti, che sono numerosi dalle mie parti, dove crescono decisamente più svettanti e robuste. È questa precisazione, doverosa quanto pesante, che mi ha infine dissuaso dall’utilizzarle. 
Quanto al vocabolo cannuccia, altro nome della canna di palude, pur avendo dalla sua tutta una tradizione letteraria, sbaglierò, ma oggi lo sento un po’ decaduto, più adatto a identificare il tubicino che si mette nei bicchieri per sorbire le bibite.
Ad ogni modo, né con canne palustri né con cannucce sarei riuscito a raffigurare quel che visivamente è una massa vegetale fitta e variegata, un disordine di canne piu o meno alte e più o meno esili, foglie e infiorescenze varie. Insomma a restituire l’immagine realistica di quel che fin da piccolo io ho sempre chiamato, in una parola, cannezza. 


Nevo

Sappiamo tutti cos’è un neo, mentre non tutti probabilmente sanno cosa sia un nevo, come non lo sapevo io, prima che mi capitasse sotto gli occhi sfogliando un dizionario.
Dove infatti scopro che è un termine piuttosto recente, coniato nel 1937 per consentire ai medici di definire in modo più specialistico, si può ragionevolmente supporre, il volgarmente detto neo.
Sotto il profilo etimologico niente da eccepire, perché comunque è ripreso ancora dal neo latino, naevus.
Quel che invece viene naturale domandarsi è se di tale sinonimo scientifico ci fosse realmente necessità, dopo che per secoli non se ne era sentito alcun bisogno.
Anche perché più che un sinonimo somiglia veramente a un doppione, tra i tanti che sembrano stati fatti apposta per complicarci la vita. 
Intanto, in attesa della risposta di un competente in materia, prendiamo nota di una parola in più, anzi di due, se poi dal sostantivo nevo è germinato l’aggettivo nevico che – attenzione! – con la neve non c’entra nulla, significa “riguardante i nei”, appunto.
Fermo restando che questo nuovo neo, o nevo per meglio dire, evoca irresistibilmente quelli posticci che gentiluomini e gentildonne applicavano maliziosamente sui loro volti imbellettati.




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Da Nove prose + quindici, con una Nota di Giampiero Neri, Colpo d’occhio, Rimini 2010.

Carlo Cattaneo




Della riforma dell’ortografia


[...]
   Quando diciamo che è meglio scrivere anatomia, cultrice, evangelio, ospitale, solfo, corano in una maniera precisa e costante, e giusta le immediate loro derivazioni, non è buona fede il risponderci che ci mettiamo in un mare d’ipotesi. Nessun fratello ignorantino, il quale non sappia come evangelio vuol dire buona nuova, e come in questo suo significato quella prima sillaba v’è per qualche cosa; onde è più giusto, e anche più rispettoso, pronunciar come Dante piuttosto evangelio ed evangelico, che non vangelo, vangelico e peggio poi guagnele. Non è ipotesi, ma fatto indubitabile che il corano di Maometto sia un libro arabo, e che quell’al che lo precede sia il suo articolo; onde diviene superfluo, quando vi precede già l’articolo italiano. Pure chi non sa l’arabo, se ne potrebbe scusare, se dovesse fare questa ricerca da sé. Ma noi non parliamo a lui, bensì a quei che si arrogano di fare i vocabolari per addottrinar noi barbari traspadani nei misteri d’una lingua che non è cosa nostra; ma è dono grazioso della plebe toscana, largitoci per mezzo degli academici della Crusca, i quali scrivono com’ella pronuncia, e pronunciano com’ella comanda, a guisa veramente di suoi papagalli. E noi pure non amiamo le ipotesi, ma bene i fatti certi e l’esperienza. Dove le ipotesi cominciano, arrestiamoci pure; ma non fingiamo sognare ipotesi ove tutto è certo e incontestabile come la luce del sole.
   Il rimovere dalla scrittura nazionale li arbitrii e li errori non «tende a disciogliere l’uniformità», bensì a stabilirla. Avverso all’uniformità è chi scrive promiscuamente nascondere e niscondere, necessità e nicistà; e come se non bastasse dir vomero e vomere, vi giunta bomere e bomero, bombero e bombere. La regola suprema della pronuncia ad un tempo e della scrittura ne sembra questa: per amore di chiarezza e d’uniformità e di costanza, ogniqualvolta le parole si trovino pronunciate e scritte in più modi, preferire sempre quello, che, nel piegarle alla forma italica, meno le allontana dalla manifesta origine loro, e meglio le collega colle altre voci della nostra lingua. Sgombrare dal dizionario tutte le altre variazioni e difformità.
   Per questa maniera non solo conseguiremo fermezza di scrittura e di pronuncia nella nostra favella, ma quando nelle citazioni verrà in paragone l’italiano con testi d’altre lingue, non vedremo i compositori delle stampe ingemmare di raddoppiamenti toscaneschi anche le parole latine o francesi, e con un respubblica, o un obbligation o un accademie farci parere ignari delle lingue da cui citiamo. Né il confronto porrà in brutta evidenza quell’asserto della Crusca che gli spropositi sono la naturale essenza della nostra lingua e il privilegio della nostra nazione.
[...]



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In Scritti filosofici letterari e vari, a cura di Franco Alessio, Sansoni, Firenze 1957, pp. 524-525.

Pier Vincenzo Mengaldo




I vocabolari


   Cominciamo la nostra panoramica da quelli storici. Il periodo, grosso modo, tra le due guerre vede due scacchi per la lessicografia storica italiana: la quinta edizione, iniziata nel lontano 1863, del Vocabolario della Crusca s’arresta nel 1923 all’undicesimo volume, lettera O (Firenze, Tipografia galileiana di M. Cellini e c.); il Vocabolario della lingua italiana dell’Accademia d’Italia non va oltre il primo volume A-C (Milano, Società anonima per la pubblicazione del Vocabolario della lingua italiana, 1941). In entrambi i casi la ragione dell’interruzione fu esterna, quali che fossero i difetti delle due opere, molto discusse: e cioè nel primo la polemica contro la Crusca condotta soprattutto, dalla sponda idealistica, dal grande filologo Cesare De Lollis, nel secondo la fine dell’Accademia d’Italia con la fine del fascismo cui era legata. Ma a parte ciò la quinta Crusca, p.es., continuava a indulgere troppo al toscanismo in tempi mutati; e il Vocabolario dell’Accademia, che si dichiarava «insieme letterario e dell’uso», nonostante punti forti come le etimologie redatte da Clemente Merlo e gli esempi di autori contemporanei (ma senza indicazioni di luogo!), non era certo esente di difetti, come nelle definizioni e negli spogli mancati, in particolare dalla lingua giornalistica. Quanto all’attuale Crusca, si limiterà per ora a un Tesoro della lingua delle origini (cioè fino al 1375, morte del Boccaccio); e siamo sullo stesso piano con il GAVI = Glossario degli antichi volgari italiani di Giorgio Colussi, Helsinki, 1983- (distribuzione Perugia-Foligno, Editoriale Umbra), giunto finora alla C con in più l’inizio della S.
   In queste condizioni benvenuta l’apparizione del Grande Dizionario della lingua italiana (= GDLI), diretto prima da Salvatore Battaglia, poi da Giorgio Bàrberi Squarotti (Torino, UTET, 16 voll., 1961-92, fino a Roba): che si dice debba terminare, ma c’è da dubitarne dato il progressivo crescere della mole, nel 2002. Non pochi sono i pregi del GDLI: il fatto stesso di esistere e procedere, la grande ricchezza dell’esemplificazione anche in territori storici come il Quattro e il Settecento, quasi evitati dalla vecchia lessicografia, e naturalmente la larga attestazione della contemporaneità. Ma l’opera non è esente da aspetti discutibili, specie nei primi volumi (cfr. subito FOLENA 1961), in parte corretti in séguito: il taglio troppo letterario, l’impianto filologico spesso non sicuro, l’ostracismo ai forestierismi non adattati ecc.; si nota anche non di rado un’utilizzazione troppo parziale o sporadica di testi importanti pur spogliati e un’insicurezza nella classificazione degli esempi secondo le giuste accezioni delle voci, il che richiede (come in genere l’impianto semantico) il ricorso al vecchio Tommaseo-Bellini, in questo quasi infallibile.
[...]



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Da Il Novecento, settimo volume della Storia della lingua italiana a cura di Francesco Bruni, il Mulino, Bologna 1994.

Walter Benjamin




Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov


   1.
  
   Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare – non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi. Presentare Leskov come narratore non significa, quindi, avvicinarlo, ma accrescere la distanza che da lui ci separa. Considerati a una certa distanza, i grandi e semplici tratti che costituiscono il narratore prendono in lui il sopravvento. O, per dir meglio, essi emergono in lui come una testa umana o un corpo animale si disvelano, in una roccia, all’osservatore che si è messo alla giusta distanza e nel giusto angolo visuale. Questa distanza e questa prospettiva ci sono imposte da un’esperienza che abbiamo modo di fare quasi ogni giorno. Essa ci dice che l’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze.
   Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo.


   2.

   L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi. Questi ultimi si dividono in due gruppi, che peraltro si compenetrano in molti sensi. E il personaggio del narratore acquista tutta la sua fisica concretezza solo per chi li tenga presenti entrambi. «Chi viaggia, ha molto da raccontare», dice il detto popolare, e concepisce il narratore come quello che viene da lontano. Ma altrettanto volentieri si ascolta colui che, vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni. Chi si voglia rappresentare questi due gruppi nei loro esponenti arcaici, troverà l’uno incarnato nell’agricoltore sedentario, e l’altro nel mercante navigatore. [...]



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Da Angelus Novus, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino, ristampa 1993.

venerdì 9 dicembre 2011

Robert Louis Stevenson




La moralità della professione delle lettere

[...]
   Ci sono solo due ragioni che devono guidare le scelte importanti della vita: la prima è una predisposizione innata in chi compie la scelta; la seconda, che l’attività scelta sia di qualche utilità. La letteratura, come qualsiasi altra arte, ha un interesse particolare per l’artista che la pratica ed è, in un grado peculiare rispetto alle altre arti, utile al genere umano. Queste giustificazioni sono sufficienti per qualsiasi giovane uomo o donna che voglia farne la propria occupazione. Quanto ai guadagni, non ho molto da dire. È possibile mantenersi con la scrittura. Forse non con lo stesso agio consentito da altre attività, però è possibile. Ma è la natura del lavoro al quale un uomo dedica tutta la sua giornata a determinare il suo grado di felicità, più che la qualità della cena che lo attende la sera. Qualunque sia il vostro mestiere, e qualunque sia la somma che vi fa incassare alla fine dell’anno, guadagnereste molto di più, lo sapete anche voi, truffando il prossimo. Siamo tutti troppo inclini ad angustiarci per le ristrettezze finanziarie, ma riflessioni di questo genere non dovrebbero essere determinanti nella scelta dell’attività che occupa e dà significato a una porzione tanto rilevante della nostra vita; come il missionario, il patriota, o il filosofo, dovremmo tutti scegliere quella carriera nella quale siamo in grado di dare il massimo e il meglio per l’umanità, anche se ci richiede sacrifici economici e coraggio. Ora, la Natura, se la si segue fedelmente, si dimostra una madre premurosa. Un giovane, incantato dal suono delle parole, si dedica alle lettere per la vita; col tempo, quando diventa più assennato, si rende conto di aver fatto una scelta migliore di quanto credesse, capisce che se anche guadagna poco, quel che guadagna è più che sufficiente; che se riceve un salario modesto, è però nella posizione di rendere un servizio considerevole; che è in suo potere, seppur in piccola misura, proteggere gli oppressi e difendere la verità. Perché il mondo è predisposto nel modo più favorevole, il profitto che l’uomo può ricavare dalla certezza di poter fare affidamento su di sé è enorme e la professione della scrittura è guidata dalla stella più propizia, al punto che uno scrittore riesce a combinare piacere e profitto, a essere contemporaneamente gradevole, come il suono del violino, e utile, come un buon sermone.
   Questo per quel che riguarda la letteratura al suo massimo livello e con i quattro grandi ai quali continuiamo a rivolgere il nostro rispetto e la nostra ammirazione, con Carlyle, Ruskin, Browning e Tennyson come modello, sarebbe un atto di codardia discutere di letteratura partendo da aspetti meno dignitosi. Ma anche se non siamo in grado di tenere il passo di questi atleti, anche se nessuno di noi, probabilmente, riesce a essere così vigoroso, così originale, così saggio, continuo comunque a pensare che persino nella più umile delle attività letterarie abbiamo il potere di arrecare un grave danno o di fare realmente del bene. Abbiamo la possibilità di provare solamente a dare piacere al lettore, possiamo, in mancanza di altri talenti, provare semplicemente a gratificare la curiosità oziosa ed effimera dei nostri contemporanei, oppure possiamo provare, anche coi nostri poveri mezzi, a insegnare qualcosa. In tutti questi casi avremo a che fare con quella straordinaria arte delle parole che, costituendo il dialetto dell’umanità, trova la via nella mente degli uomini con facilità e forza straordinarie e per questo, qualunque sia il nostro ramo della letteratura, siamo nella posizione di contribuire alla formazione di quell’insieme di convinzioni e giudizi che va sotto il nome di Opinione Pubblica o Sentire Comune. Quello che una nazione legge, in quest’era di pubblicazioni quotidiane, influisce sensibilmente sul modo in cui essa si esprime e la capacità di espressione e di lettura, messe insieme, costituiscono lo strumento principale per istruire le giovani generazioni.
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   Ecco qui, allora, un lavoro degno di essere fatto e di essere fatto nel miglior modo possibile. Perciò, se mi proponessi di dare il benvenuto a ogni valido ingresso nella nostra professione, lo farei non pensando alle possibilità di guadagno, ma perché si tratta di una professione sommamente vantaggiosa e nel senso più nobile del termine; una professione che ogni praticante onesto renderebbe più utile all’umanità con il proprio singolo contributo; una professione che è difficile svolgere bene ed è possibile migliorare di anno in anno; una professione che richiede considerazioni scrupolose da parte di tutti coloro che la esercitano e dunque diventa un cammino di formazione continua per quelle nature nobili; una professione che, non importa quanto venga pagata, nella maggior parte dei casi non sarà mai pagata abbastanza. Perché di certo, a questo punto del diciannovesimo secolo, non c’è niente che un uomo onesto dovrebbe temere di più che ricevere e spendere più di quanto si meriti.




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Da L’arte della scrittura, Mattioli 1885, Fidenza 2009. Traduzione di Francesca Frigerio.

giovedì 8 dicembre 2011

Chuang-tzu




Dialoghi senza parole

Lo scopo della nassa è prendere il pesce: preso il pesce metti da parte la nassa. Lo scopo del laccio è prendere la lepre: presa la lepre metti da parte il laccio. Lo scopo delle parole è esprimere l’idea: afferrata l’idea metti da parte le parole.
   Potrò mai trovare un uomo che metta da parte le parole e dialogare con lui?



L’abito non fa il monaco

Quando Chuang-tzu fece visita al duca Ai di Lu, questi gli disse:
   «A Lu ci sono molti dotti letterati, ma pochi seguono il tuo metodo, signore.»
   «A Lu ci sono pochi dotti» osservò Chuang-tzu.
   «In tutto il regno di Lu non vedi altro che abiti da dotto» insisté il duca Ai. «Come fai a dire che sono pochi?»
   «Ho inteso dire che quelli che si coprono il capo con cappelli rotondi conoscono le stagioni, quelli che calzano scarpe quadrate conoscono le posizioni della Terra, quelli che portano pendagli alla cintura danno giudizi sugli affari dello stato. Ma i saggi che hanno queste conoscenze non portano necessariamente quei vestiti e chi porta quei vestiti non ha necessariamente queste conoscenze. O duca, se davvero credi che non sia così, perché non emani un proclama in cui sia detto: “Chi porta quegli abiti senza possedere quelle conoscenze sarà condannato a morte”?»
   In effetti il duca Ai emanò il proclama ed entro cinque giorni nel regno di Lu non vi fu più chi osasse vestirsi da dotto. Solo un uomo se ne stette alla porta del palazzo vestito in quel modo. Il duca lo fece venire alla sua presenza e l’interrogò sugli affari del regno: questi, di fronte ai vari quesiti, non si trovò mai a corto di risposte.
   «Come vedi, in tutto il regno di Lu c’è un solo dotto» concluse Chuang-tzu. «Puoi dire che siano molti?»



Un vero pittore

Il principe Yüan di Sung voleva far dipingere un quadro e diramò l’invito. Si presentò una folla di scribi, i quali, ricevuto l’ordine e fatti gli inchini, se ne stettero lì a leccare i pennelli e a sciogliere l’inchiostro. Metà di loro rimase fuori.
   Ma ve ne fu uno che arrivò dopo gli altri, con comodo e senza affrettarsi. Costui, ricevuto l’ordine e fatti gli inchini, non restò lì ma se ne andò a casa sua.
   Il duca mandò qualcuno a vedere: l’uomo si era tolto il vestito e dipingeva seduto in terra a gambe incrociate.
   «Ecco» disse il duca. «Quello è un vero pittore!»



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Da La calma, a cura di Claudio Lamparelli, Mondadori, ristampa 2010. Traduzione di Fausto Tomassini.